Quando da Ragusa si affaccia verso Comiso, nei giorni limpidi Damiano Caruso vede chiaramente l’Etna. Quei 130 chilometri sono niente al cospetto dei 3.357 metri del gigante nero di Catania. Da un paio di giorni, il suo scenario è pieno di un altro vulcano, alto appena 200 metri di più, ma così vicino da poterlo toccare. Il Teide, luogo mitologico di eruzioni e campioni, che per due settimane farà compagnia alle sue uscite.
«Da un vulcano all’altro – sorride – uno lo vedo in alto, qua siamo quasi in cima. E’ il secondo ritiro di stagione, ho evitato di andare a quello di gennaio con la squadra per non rischiare contagi. Non era il momento per viaggiare. E alla fine è venuto fuori un inverno bello lungo, anche perché ho staccato abbastanza presto, il 5 settembre dopo la Vuelta. Sono arrivato a fine stagione con le batterie scariche e bisogno di tirare il fiato. Ho pedalato ancora a settembre e ottobre, perché da noi in quel periodo è ancora caldo. Poi quando a novembre, guardando la bici, ho avuto voglia di ripartire, ho ricominciato. A pedalare. A curare l’alimentazione. A lavorare, insomma…».
Il debutto della 14ª stagione da professionista di Damiano Caruso è fissato alla Ruta del Sol, fino ad allora resterà quassù a macinare chilometri e pensieri.
E’ sempre facile riprendere o dopo un po’ diventa complicato?
Dipende sempre da come finisci la stagione. Quando faccio il Tour e poi stacco, la condizione va giù ed è sempre più difficile. Questa volta, avendo fatto la Vuelta, la ripresa è stata buona, perché andando ancora in bici, il corpo non ha mai smesso in effetti di essere efficiente. E comunque anni e anni di adattamento alla bici e a certi meccanismi non si cancellano per poche settimane senza allenarsi.
Come è stato congedarsi dal 2021?
Se guardo indietro, è stato uno spasso. E’ filato tutto liscio. Guardo quello che ho fatto e mi faccio i complimenti, sono soddisfazioni. Sto ancora metabolizzando il tutto, perché un anno così proprio non me lo aspettavo. Anche se pensavo che dopo tanto lavoro, qualcosa di buono prima o poi sarebbe venuto fuori.
Un anno che fa alzare l’asticella?
E’ facile farsi prendere dall’euforia, soprattutto quando ci sei ancora dentro. Sappiamo tutti però che non tutte le annate sono uguali. E poi c’è la carta di identità che potrebbe presentare il conto, anche se continuando a lavorare con lo stesso impegno, il livello sarà ancora buono. Finché hai voglia di fare il tuo lavoro, le cose filano come devono.
Pensi di avere ancora margini?
Fisicamente magari no, non lo so. Però ho lavorato bene per tanto tempo, probabilmente senza ottenere quel che era giusto. Invece a 34 anni ho tirato fuori l’anno migliore. Contano tanto la determinazione e capire che non si deve essere al top in ogni corsa. A questo livello ne bastano 2-3 fatte al top e fai la differenza. Serve la testa per sopportare lo stress e i carichi di lavoro e questa viene con l’esperienza di anni e anni.
Come la mettiamo con i ragazzini degli ultimi due anni?
A parte i veri fenomeni, come Pogacar ed Evenepoel, sono curioso di vedere come evolverà la situazione nei prossimi 2-3 anni. Prima o poi il conto da pagare arriva e qui c’è gente che per euforia o necessità, ha corso 4 grandi Giri in un anno. Non siamo fatti per pedalare 40 mila chilometri a stagione. Io credo di aver trovato il giusto equilibrio che mi ha dato una carriera lunga, ma sono pronto a sentirmi dire che se un ragazzo riesce a guadagnare in 6 anni quello che io ho raggranellato in 15, allora può smettere prima. Di certo se quando sono passato fossi stato capace di certi risultati, neanche io mi sarei tirato indietro.
Hai pubblicato un messaggio di auguri a Bernal, con il podio del Giro e la speranza che torni quel sorriso.
Sto male per incidenti del genere, anche quando coinvolgono il vicino di casa. Capisci quanto siamo vulnerabili. Poi ho capito la dinamica e mi sono reso conto che Egan sia fortunato ad essere qui per raccontarlo. E credo che anche lui se ne starà rendendo conto.
Arrivasti in questa squadra per aiutare Nibali, però alla fine del primo anno lui se ne andò.
All’inizio fui spaesato, andava via la persona per cui ero arrivato. Ma mi sono detto che il Team Bahrain Victorious (allora si chiamava Bahrain-Merida, ndr) mi aveva voluto per i miei numeri e così iniziai a fare bene il mio. Cercavano un gregario e avevano trovato un altro corridore. Le cose della vita sono così, forse se lo scorso anno il povero Landa non avesse avuto quella caduta, non avrei mai fatto un Giro così. Ero partito con l’intenzione di vincere una tappa, sapevo che sarebbe venuta, perché avevo le carte per riuscirci.
E il Giro ha cambiato la consapevolezza?
Sono andato alla Vuelta sapendo che una tappa potevo vincerla ancora e così è stato.
In squadra c’è la stessa euforia dello scorso anno?
Se possibile anche di più. Chi ha fatto risultato vuole ripetersi o migliorarsi, gli altri non vogliono essere da meno. Ci sono i presupposti per fare bene. Se due anni fa ci avessero detto che avremmo vinto più di 30 gare, non ci avremmo creduto.
Il Giro è stato la conseguenza di alcune situazioni, l’idea era vincere una tappa.
E’ la mia idea anche adesso. Fare un grande Giro per tenere duro tre settimane è logorante a livello mentale. Meglio partire con una buona condizione, puntando a una tappa e vedere se viene fuori altro. Il bello è che per vincere non devo andare in fuga. E vincere andando via dal gruppo dei migliori è una bella sensazione.
Debutto alla Ruta del Sol e poi?
E poi in Belgio a provare la tappa del pavé del Tour. Sfrutteremo i mezzi che sono su per l’Het Nieuwsblad e spero che piova. Voglio provare il pavé nelle condizioni in cui Sonny (Colbrelli, ndr) ha vinto la Roubaix. Affronterò quel giorno con serietà. Voglio mettermi a ruota di uno che conosce quelle strade. Mi piace ancora fare il mio lavoro…