Letto come si allena Lenny Martinez, abbiamo sottolineato alcuni passaggi che più di altri ci hanno colpito e ci siamo rivolti a Paolo Slongo. Il veneto, che oggi è uno degli allenatori della Trek-Segafredo, ha lavorato per anni nella nazionale juniores e ha chiaro il lavoro che si chiede oggi a uno junior di alto livello.
«Quando correvo io e negli anni dopo – dice – come volumi non si faceva poi tanto di meno. Su quello che fa non c’è tanta differenza rispetto agli italiani. Però avere le tabelle dei dietologi, oppure l’uso del potenziometro, le ripetute che fa… Fa già lavori che fanno i professionisti. E questo forse è la prima anomalia».
E’ sbagliato?
Non in sé, oppure fisiologicamente, però bisogna essere consapevoli che così si bruciano le tappe. Secondo me il nocciolo della questione è questo. Anche la Francia nel professionismo ha buoni corridori come noi, ma nessuno che vince un grande Giro. Come mai? Io non voglio più lavorare con allievi e juniores, perché se gli dico che devono divertirsi senza magari guardare i chili in più, se gli dico che va bene sbagliare, mi guardano male. La categoria secondo me deve tornare quella che era. Cioè per andare avanti quasi bisogna tornare indietro alle vecchie abitudini.
Cosa pensi del fatto che Martinez usi rapporti più lunghi? Ha senso tenere quella regola?
Alcuni studi dicono che comunque già da allievo puoi lavorare sulla forza senza danneggiare lo sviluppo. Cioè possono comunque allenarla, ma anche in questo io vorrei tornare alla scuola vecchia, per cui a quell’età si devono curare più le abilità che le prestazioni.
In che senso?
Faccio sempre l’esempio di Ivan Basso, che da professionista magari non era un drago in discesa, perché magari quando aveva 15 anni non ha lavorato abbastanza su questo. Faccio anche l’esempio di Sagan, che per il freddo faceva ciclocross o mountain bike. Sono cose che da giovani si imparano meglio, perché non hai la componente paura e ti viene tutto automatico. E poi ci sarebbe da parlare delle dotazioni.
Cioè?
Sempre quando correva la mia generazione, c’era la regola per cui ti davano ruote con 36 o 32 raggi e basso profilo. Adesso invece l’allievo ha le stesse ruote di Nibali, quindi non c’è una progressione di miglioramento. In più il discorso delle ruote anche per noi era soprattutto per non creare differenze fra classi sociali diverse, così il figlio del contadino aveva le stesse ruote del figlio dell’industriale. Leggo i vostri articoli, per ritrovare i talenti bisogna ritornare alla multidisciplina e al mettere i piedi per terra.
Cosa pensi dei 170 chilometri in allenamento?
Sono un po’ tanti, come sono tante le 4-5 ore. Anche i 177 chilometri in gara forse li ha fatti partecipando con la nazionale a qualche corsa di under 23 se in Francia gli danno questa possibilità. Ma più che le distanze, mi concentrerei sugli strumenti e il tipo di lavori.
Che tolgono margini?
Margini e stimoli, che tolgono importanza alla gavetta. Se da allievo corri con il Chorus, sogno di diventare dilettante o professionista per avere il Record.
La sensazione è che si ragioni per averli professionisti a 20 anni.
Magari ci sarà un ciclismo in cui ottieni tutto entro i 25 anni e poi smetti. Come Pogacar, che ha raggiunto risultati che un tempo avremmo detto impossibili. Magari il nuovo orizzonte sarà pieno di corridori che fanno 6-7 anni ad alto livello e poi mollano. E tutto sommato il vero nodo è proprio questo. Che cosa si chiede a questi ragazzi e dove vogliamo portarli.