Chi non ha mai stimato la condizione di un atleta guardando quanto fosse magro e definito, insomma quanto fosse tirato? Purtroppo questo è lo stereotipo del ciclista forte nella cultura comune, ma non sempre è così e la realtà che si cela non è da sottovalutare.
Il problema fantasma
Nessuno ne vuole parlare, ma dagli studi emerge che i DCA (disturbi del comportamento alimentare) quali anoressia, bulimia, binge eating (volgarmente detto “il disturbo delle abbuffate”) e la vigoressia, ossia il non vedersi mai abbastanza fit, sono sempre più comuni. Chi ne soffre non ne è consapevole e per questo i casi sono tendenzialmente sotto diagnosticati o ignorati. In media il 20% delle sportive professioniste soffre di uno di questi disturbi, percentuale che potrebbe essere ancora più alta in uno sport come il ciclismo, in cui il rapporto potenza/peso è di massima rilevanza. I DCA non si limitano al femminile, sebbene le donne ne siano più soggette, si stanno diffondendo anche al maschile, basti pensare alle dichiarazioni di Froome, Chevrier e Brajkovic. Abbiamo così intervistato al riguardo Elisabetta Borgia, dottoressa in Psicologia dello sport.
L’influenza sulla performance
«E’ un problema che colpisce sia chi ne soffre – spiega Elisabetta Borgia – che non si riconosce e non accetta la sua immagine, sia l’avversario che, sulla base dello stereotipo, si sente inferiore perché non altrettanto magro e definito. Inoltre può essere vissuta sia in maniera virtuosa che punitiva. Si pensi ad esempio ad un corridore che vince dopo avere perso quel paio di chili. In questo caso assocerà il successo alla perdita di peso e sarà indotto a ridurre sempre più l’apporto calorico. Viceversa un commento inadeguato o un’analisi approssimata in seguito ad una performance deludente, possono innescare una connessione prestazione-peso pericolosa. Allenamenti post gara o privazione dei pasti possono altresì attribuire al cibo una funzione punitiva o ricompensativa».
Dal punto di vista fisico, tutta una serie di complicanze che compromettono la salute dell’atleta anche a lungo termine vengono totalmente ignorate. Non si tratta solamente dell’interruzione del ciclo mestruale nella donna, ma di gravi alterazioni a livello metabolico e psicologico, dell’apparato cardiovascolare, osteoarticolare, respiratorio e gastroenterico.
Chi è più predisposto?
«L’identità è fatta di come ti senti – prosegue Elisabetta Borgia – e di come ti vedono gli altri. Tra allievi e junior il cambiamento fisico e della figura di riferimento comporta una maggiore vulnerabilità. Specialmente per le personalità perfezioniste, che hanno difficoltà a regolare le emozioni ed hanno paura di una valutazione negativa dalle figure più prossime. L’allenatore diventa spesso il confessore, il cui detto è percepito come sacro senza bisogno di essere giustificato né spiegato. Per questo motivo è fondamentale che queste figure facciano particolare attenzione alle indicazioni e richieste che fanno agli atleti. Pretendere che si pesino tutte le mattine di fronte a loro è una pratica a suo modo violenta, che può facilmente creare un’ossessione nel giovane atleta».
I fattori scatenanti
«Aspettative sempre più alte che, quando diventano irrealizzabili – spiega la psicologa – fomentano il senso di colpa, l’ansia e la delusione. Spesso i corridori perdono il controllo della situazione così finiscono per alternare periodi di anoressia e bulimia ad altri di binge eating. Non sopportano più la pressione e si sfondano della “qualunque” a tavola. Oppure non soddisfatti dalla gara, fanno ulteriori tagli alla dieta o aumentano il carico di lavoro nel disperato tentativo di perdere quel peso a cui imputano i loro insuccessi».
Come intervenire?
«Bisogna combattere l’ignoranza – ribadisce Elisabetta Borgia – il giovane ciclista è come un pesciolino in un acquario. Perché cresca bene e in salute, bisogna curare l’acqua, ovvero quello che è l’ambiente, sensibilizzando le figure a lui più prossime. Quando i sintomi si manifestano è già tardi e l’intervento non è semplice. E’ fondamentale la collaborazione di più figure professionali specifiche, che creano un’equipe multidisciplinare lavorando sul sistema di riferimento dell’atleta, per trasmettere un messaggio univoco e poter capire cosa c’è dietro al malessere che causa il disturbo. Io punto al modello DBT le cui pratiche sono basate sul mindful eating, letteralmente mangiare con consapevolezza. Questa pratica è come un allenamento, può essere adottata da chiunque, senza che presenti effettivamente un disturbo. Ed insegna ad assaporare ed apprezzare il pasto nel momento in cui si mangia, per ripristinare il corretto rapporto col cibo».