“Sapersi fare male”, solo chi ha praticato certi sport, e a un determinato livello, può capire questa frase che sembra ad effetto, ma in realtà è molto concreta. Qualcosa di molto simile lo abbiamo vissuto tante volte nel ciclismo. E una di queste è avvenuta durante il Giro d’Italia quando, insieme a Davide Ballerini commentammo lo sforzo estremo sull’arrivo micidiale di Vicenza. Parliamo di uno sforzo violento dunque.
Lì andò in scena il duello tra Mads Pedersen e Wout Van Aert, a cui partecipò finché ne ha avuto la forza anche Isaac Del Toro. Emersero ovvie differenze fisiche tra i due “pesi massimi” e il più leggero messicano, uomo da classifica.
Ma emersero anche differenze nella gestione dello sforzo. In quel minuto finale, Van Aert e Pedersen riuscirono a dare di più rispetto al messicano. E’ una peculiarità degli uomini da classica: sapersi svuotare fino in fondo.
Quello sforzo massimale
Noi abbiamo esteso questo argomento anche oltre il ciclismo, restando però sempre negli sport di endurance. Abbiamo quindi posto la questione del “sapersi fare male”, dello sforzo estremo, a due giganti del nostro sport: lo sciatore di fondo Federico Pellegrino e l’ex corridore Stefano Baldini (in apertura foto Fidal).
Per chi non li conoscesse (ma dubitiamo!), Federico “Chicco” Pellegrino è il fondista italiano con più vittorie in Coppa del mondo, vanta medaglie iridate e olimpiche. E’ uno specialista delle sprint ma sempre più spesso si esprime bene anche nel long distance.
Stefano Baldini, lo ricorderete tutti in quella fantastica notte di Atene quando vinse l’oro nella Maratona. Ma la sua bacheca è ancora più ricca: campione europeo in maratona per due volte e primatista italiano.
Entrambi ci hanno fatto (e Pellegrino ci fa ancora) tremare con i loro grandi finali, quando lo sforzo è massimo e la tensione è a mille.
L’esperienza di Baldini
«Come si fa a farsi male? Questa domanda ha tante possibili origini. C’è una bella differenza fra la corsa e il ciclismo – spiega Baldini – nel ciclismo lo sforzo è generalmente molto più costante e se vai un minuto a tutta, è perché sei in una situazione di disperazione e devi chiudere su qualcuno, o magari nel finale di una crono o ancora all’arrivo. Ma tutto è misurabile, grazie al mezzo, la bici. Nella corsa, invece, c’è solo il singolo atleta. E tutto è più lasciato alla situazione, se vogliamo.
«Nella corsa lunga come la maratona – continua l’emiliano – devi ascoltare moltissimo il tuo corpo, le sensazioni. Devi gestire lo sforzo con una strategia: se puoi tenere quel ritmo in base alla distanza dal traguardo. Se ho sbagliato questa gestione? Ho sbagliato fino all’ultima gara della mia carriera. In allenamento calibravo tutto ed ero bravo, ma in gara gli altri ti cambiano. Lì devi sempre misurare te stesso… ma in mezzo a un gruppo.
«Il miglior agonista è quello con una visione a 360° della gara. E’ quello che interpreta sé stesso e legge il linguaggio del corpo degli altri, dando tutto in base alla distanza dall’arrivo e alle possibili strategie. Non è facile. In maratona accumuli acido lattico, ma non hai quei picchi che si hanno nei 400 metri o negli 800, le distanze di massima velocità aerobica. E’ un accumulo diverso che ti porta al degrado della prestazione».
«La volta che ho dato più di quel che avevo? Mi è capitato spesso. Ricordo il mondiale di Helsinki: ci arrivavo da campione olimpico, volevo essere il numero uno… ma era così. Ero da podio, da bronzo. Non l’ho accettato. Sono andato oltre, non ho finito la gara e me ne sono assunto la responsabilità. Come si dice oggi: ho fatto all‑in. O tutto, o niente».
«Al contrario, ho gestito perfettamente lo sforzo quando ho stabilito il mio secondo primato italiano, alla Maratona di Londra 2006. Non ero il miglior Stefano di sempre, ma sono riuscito a dare tutto nel modo giusto, specie nel finale».
Parola a Pellegrino
E dalle scarpe da corsa passiamo agli sci stretti. Abbiamo incontrato Federico “Chicco” Pellegrino, nella sua Valle d’Aosta, all’arrivo a Champoluc, durante il Giro.
«Come ci si fa male? Mi dico di andare a tutta, oltre e ancora oltre. Dico alla mia testa: “Ancora un po’, ancora un po’…”, finché non arriva il traguardo. Subito dopo le energie sono finite e quel che è arrivato è arrivato. Se ho vinto, meglio, altrimenti resta la soddisfazione di aver dato tutto. Nel momento dello sprint l’unico pensiero è arrivare al traguardo. Mi sento come un cavallo coi paraocchi: menare a testa bassa e via…».
Pellegrino è specialista delle sprint (sessioni da 2’30” fino a 4’), ma negli anni si è migliorato anche nelle distance:
«La differenza tra le due volate? Nelle sprint, prima del rush finale la posizione conta, non devi essere oltre la terza piazza altrimenti non risali. Nelle distance, invece, oltre alla posizione conta risparmiare energie. In questa seconda tipologia di gara più lunga, a volte sottovaluto gli avversari immaginandoli ancora come sprinter. Come agli ultimi mondiali, del resto, dove ho perso una medaglia per pochi centimetri».
L’analisi dei dati
Lo sforzo violento di Pedersen apre anche il discorso della misurazione dei dati. Come diceva Baldini, grazie alla bici si hanno numeri, nella corsa no. A Vicenza Pedersen stava sui 1. 000 watt per un minuto, qualcosa di mostruoso. Ma anche qualcosa che si è potuto misurare.
Ma fondisti e runner come fanno queste valutazioni? Come ottengono numeri? Il cardiofrequenzimetro non basta più neanche per loro immaginiamo. Nella corsa si sta sperimentando una tecnologia che misura la forza attraverso l’impatto del piede sul terreno, ma siamo davvero agli albori. Entrambi gli sport, come il ciclismo del resto, però usano il GPS.
«Il bello, per gli scienziati un po’ meno, dello sci di fondo – conclude Pellegrino – è che resta molto misterioso. Non è tutto quantificabile come nel ciclismo. Stiamo lavorando sulla distribuzione dello sforzo e dell’energia sfruttando il GPS, che negli sprint dà dati interessanti su accelerazioni e tecnica. Quest’ultima è fondamentale, non esiste (o non è così determinante, ndr) nel ciclismo o nella corsa e può variare la resa. Inoltre, la tipologia della neve è fondamentale: ogni neve risponde in modo diverso. Quindi nello sci di fondo non è solo questione di VO2max, ma anche capacità di adattamento alla neve. Fosse solo per quello, noi fondisti potevamo fare i ciclisti… come Nordhagen!»