Paolo era ancora nel camper, nulla lasciava presagire quel che sarebbe accaduto. Sentì bussare. Disse semplicemente: «Avanti». Marco stava vincendo il Giro con un vantaggio più che tranquillizzante, in quel bel giorno di giugno fuori c’era il sole. Era un mattino che già solo svegliarti ti metteva di buon umore. Pregnolato aveva la faccia stravolta.
«Vieni su, fai il favore. C’è Marco incazzato duro, che non riusciamo a convincerlo. Ha dato un pugno nel vetro e si è spaccato tutta la mano. Vieni a vedere se riesci a calmarlo».
«Ma cosa dici?». Paolo si sentì morire.
«Sai cosa è successo?» gli disse. «L’hanno trovato con l’ematocrito alto…».
Sangue e lacrime
Sentì una vampata di calore salirgli fino alla faccia. Poi il fiato che mancava. Reagì come un automa. Scese dal camper. Chiuse la porta. Entrò nell’albergo. Salì le scale. Entrò nella stanza.
Marco era lì che piangeva. Sangue dovunque, dalla mano al braccio, fino alla maglietta. Lo guardò. Quello che aveva fatto fino a quel momento era stato spazzato via. Guardò suo padre e gli sembrò di essere tornato bambino, quando ne faceva una più grossa delle altre e lui arrivava per punirlo. Ma questa volta anche il babbo si mise a piangere. Non aveva mai visto suo figlio in quelle condizioni. Nella stanza c’era Velo che cercava di parlargli. Poi iniziò un viavai che Paolo non ricorda ormai più.
Il silenzio di De Zan
Tonina chiuse il chiosco alle tre e mezza del mattino. Passò da casa per la doccia, si diede una sistemata e chiuse la borsa. Quelli della Fausto Coppi la aspettavano in piazza per raggiungere il Giro d’Italia. Arrivò appena poteva, poi partirono. C’era anche il fratello di Paolo. Sul pullman Tonina si addormentò.
Arrivarono ad Aprica in tarda mattinata e il paese era già in subbuglio per la tappa del Giro d’Italia che sarebbe arrivata nel pomeriggio. Tonina aveva mal di stomaco, così andarono alla ricerca di un bar. Quando lo trovarono, si accorsero che a un tavolo c’era Adriano De Zan che scriveva con la faccia scura. Andarono a salutarlo per tirarlo un po’ su.
«Marco non parte» le disse dopo un saluto laconico, poi scosse la testa, la abbassò nuovamente e si rimise a scrivere.
Tonina si voltò di scatto. Tutto intorno il gelo, facce livide, mani fredde.
«Cosa ha detto?».
Non capì più niente. Paolo era a Campiglio col camper, lui le avrebbe spiegato.
Marco va a casa
Lo chiamò e sentì la voce svuotata di ogni calore. Le disse soltanto che Marco sarebbe tornato a casa con Martinelli e che la squadra aveva deciso di non partire. Con lui sarebbe andato Fontanelli. Anche Tonina sentì il desiderio di andare via e per fortuna anche quelli della Fausto Coppi pensarono la stessa cosa, altrimenti avrebbe dovuto cercarsi un passaggio.
Un gruppo di tifosi la riconobbe. Le dissero che bastava una sua parola e avrebbero fermato il Giro d’Italia. Si sarebbero messi in mezzo alla strada sul Mortirolo. Lei disse di sì. Fu Savini, il primo direttore sportivo e poi coordinatore del fan club, a dire che sarebbe stato uno sbaglio. Era il loro capo, girava con l’ammiraglia gialla e si era tagliato i capelli come Marco. Lo ascoltarono e il Giro passò. Era il 5 giugno del 1999.
Il caso Alvisi
Pino Roncucci, direttore di Marco fra i dilettanti. in quel periodo faceva il direttore sportivo alla Rinascita di Ravenna e alla fine di maggio si stava preparando con i suoi ragazzi per il Giro delle Pesche Nettarine, corsa a tappe romagnola per corridori under 23.
Nella sua squadra c’era un ragazzino di belle speranze, che si chiamava Juri Alvisi ed era da poco rientrato dal Giro delle Regioni, corso con la nazionale. Nella corsa che ormai s’annunciava, sarebbe stato lui il capitano della squadra. Era uno che quando andava in fuga non mollava mai. Nulla a che vedere con Marco, ma un bel talento, di cui si erano accorti i tecnici federali che lo avevano inserito tra i convocati per i campionati europei a cronometro.
Il 31 maggio, prima di partire per il Pesche Nettarine, Roncucci lo aveva portato al Lam di Forlì, una struttura sanitaria in cui solitamente portava i suoi corridori a fare le analisi del sangue. L’ematocrito di Alvisi era risultato del 46 per cento, perciò il ragazzo era partito sicuro di svolgere una buona prova.
Due giorni dopo, il 2 giugno che era di martedì, accadde una cosa strana. Gli ispettori federali si presentarono per i controlli del sangue alle otto e mezza del mattino. Alvisi aveva già fatto colazione e lo trovarono con l’ematocrito a 51,8.
Al ragazzo crollò il mondo addosso. Roncucci invece rimase in silenzio. Pensò a quello che aveva sentito una settimana prima al Giro d’Italia dei professionisti e il suo cervello si mise in moto.
Controlli sballati
Stava per accadere qualcosa. Così Roncucci avvertì dell’anomalia Orlando Maini, che in quegli stessi giorni era al Giro d’Italia come direttore sportivo alla Mercatone Uno. Essendo amico di Alvisi, lo teneva in considerazione per un eventuale passaggio al professionismo. Quindi prese il ragazzo, lo caricò in ammiraglia e si diresse a tutta velocità verso lo stesso centro di Forlì in cui lo aveva controllato prima della corsa.
Il risultato fu quello di due giorni prima: 46 per cento. Così Roncucci prese gli esami e li affidò a un avvocato, il quale li mandò alla commissione medica federale, denunciando che le macchinette usate per i controlli in corsa erano tarate male.
Gli risposero che non gli importava e che il ragazzo doveva comunque rimanere fermo.
Alvisi infatti si fece i quindici giorni previsti dal protocollo, poi tornò all’ospedale Sant’Anna di Como, scelto dalla federazione per i suoi test. L’ematocrito risultò ancora intorno al 46 per cento, quindi gli venne restituita la possibilità di correre.
Nonostante una norma federale prevedesse che, in caso di problemi di quel tipo, il corridore avrebbe perso la nazionale per l’intero anno, Alvisi andò al campionato europeo e si piazzò all’undicesimo posto. Poi andò anche al mondiale. Il reclamo di Roncucci era fondato? Perché ad Alvisi non fu negata la nazionale? Quelle macchinette erano davvero tarate male?
L’allarme di Reverberi
Pino però non riusciva a stare tranquillo. Il problema era accaduto ad altre squadre anche al Giro d’Italia. Sembrava quasi che tutti gli apparecchi usati dalla federazione e dall’Uci fossero regolati allo stesso modo e i risultati erano stati bugiardi nel novanta per cento dei casi.
Ne aveva sentito parlare il 25 maggio, quando era andato a trovare Marco alla partenza della tappa che da San Sepolcro avrebbe portato il Giro a Cesenatico. Gli risposero che anche loro se ne erano accorti e che Reverberi in particolare aveva già dato l’allarme.
Bruno Reverberi dirigeva la Navigare ed era anche presidente dell’associazione dei direttori sportivi. Si era accorto che i risultati dei test dei suoi corridori erano tutti abbondantemente sopra la media e aveva cominciato a dire che le macchinette per il controllo erano state tarate male. Ma nessuno tra coloro predisposti ai controlli diede mai risposte. Roncucci aveva ascoltato e poi aveva chiesto dove fosse Marco, preoccupato anche per delle voci sentite in avvio del Giro, secondo cui Pantani alla tappa finale di Milano non ci sarebbe mai arrivato.
«E’ nel camper – gli disse Martinelli – vai pure. Ti vede sempre volentieri».
Giro nella bufera
Il Giro d’Italia era iniziato tra mille tensioni. Il Coni era nella bufera da quando si era scoperto che nel laboratorio romano dell’Acquacetosa erano stati nascosti i prelievi degli antidoping del calcio.
Il presidente Pescante si era dimesso e il nuovo arrivato Petrucci aveva buttato sul tappeto la campagna “Io non rischio la salute” cui nessuno sport tuttavia aveva aderito, perché nessuno aveva in animo di prestarsi ad analisi del sangue sulla cui attendibilità c’era più di un dubbio.
Serviva un esempio e la federazione ciclistica diretta da Giancarlo Ceruti si affrettò a dire che il ciclismo sarebbe stato ben lieto di fare da apripista. Nessuno capì il perché di quella accettazione incondizionata e fu immediato pensare che ci fosse qualcosa sotto, fosse anche la voglia del presidente federale di far carriera.
I ciclisti erano già gli unici atleti professionisti in quel momento a sottoporsi spontaneamente ai controlli del sangue. Venivano regolarmente controllati da parte dell’Unione ciclistica internazionale e dalla federazione. Accettare di dare il sangue a un terzo ente sarebbe stato troppo. Ma Ceruti alzò la voce, omettendo di dire che nessun corridore era stato informato di questa campagna e che nessuno aveva pertanto concesso il consenso firmato ad aderirvi. Perciò sembrò strano che al momento dei prelievi del sangue gli ispettori del Coni si presentassero con il modulo di adesione da firmare e riconsegnare.
Non rischio la salute
Il malumore iniziò a serpeggiare e alla fine la scelta di un corridore che parlasse per tutti cadde su Pantani, perché col carisma che aveva magari lo avrebbero ascoltato.
Solo una squadra fino a quel momento aveva accettato ed era la Mapei di Tafi campione italiano e di Tonkov
Quando Pantani si fece portavoce dei dubbi del gruppo, si scatenò un vero putiferio. Marco disse semplicemente che i corridori si rifiutavano si sottoporsi a un altro salasso, ma che avrebbero collaborato se i tre enti preposti avessero trovato un accordo tra loro. Disse soltanto che non potevano essere sottoposti a prelievo ogni giorno per soddisfare le pretese di tre diverse entità, invece si iniziò a dire che Pantani era contrario ai controlli del sangue. E il tono si alzò.
Giallo a Cesenatico
Quando Roncucci salì sul camper della Mercatone Uno, quel mattino a Sansepolcro, giugno era da venire. Pino suggerì a Marco di stare calmo, di non esporsi troppo, perché anche se avesse avuto l’appoggio di tutti i suoi colleghi, certe leggi non scritte non le avrebbe potute cambiare e contro i poteri forti non avrebbe potuto comunque vincere.
Marco lo guardò con il labbro superiore arricciato. Annuì e poi gli disse di stare tranquillo, perché sapeva quel che stava facendo. Poi aggiunse che gli dispiaceva di non arrivare a Cesenatico in maglia rosa e che la sera sarebbe andato a dormire a casa.
Non poteva ancora sapere che il mattino successivo ci sarebbe stato un controllo a sorpresa e che, per il ritardo con cui si sarebbe presentato davanti agli ispettori, questi avrebbero redatto un verbale e lo avrebbero inoltrato agli organi competenti.
Stava per accadere qualcosa. Marco vinse la tappa di Campiglio provocando malumori in quanti erano stanchi di vederlo vincere sempre e di rimediare sempre lezioni così pesanti.
Fermare Pantani
Sul traguardo trentino, in quel 4 giugno di sole appena velato, Paolo Pantani se ne andava in giro fiero e con il petto in fuori per la fortuna che finalmente arrideva a suo figlio, dopo la gamba spezzata e i due Giri saltati prima per l’investimento del primo maggio e poi per il maledetto gatto del Chiunzi.
Quel giorno sul traguardo, trovandosi per caso accanto a un capannello di uomini con la cravatta, gli capitò di ascoltarne il discorso.
Di sicuro, ricorda, c’era Castellano, il direttore del Giro d’Italia. Un po’ scherzava e un po’ era preoccupato. Parlavano della tappa del giorno dopo, la più dura.
Qualcuno gli disse che forse avrebbe fatto meglio a togliere la salita del Gavia, perché se Pantani avesse attaccato già da lì, considerato che poi avrebbero dovuto scalare anche il Mortirolo, tanti corridori sarebbero finiti fuori tempo massimo e a Milano sarebbero arrivati in dieci. Fu allora che qualcuno disse che, piuttosto che togliere il Gavia, sarebbe convenuto fermare Pantani.
Come Binda?
Paolo ascoltò e non capì. Così come non capì pochi minuti dopo la battuta di Angelo Costa, giornalista del Carlino, che con qualche imbarazzo gli disse che in sala stampa a forza di vederlo vincere i giornalisti non sapevano più cos’altro scrivere su Marco.
«Tu cosa faresti?» gli chiese Costa.
«Scriverei che domani Marco tenterà di fare poker», rispose Paolo con la prima battuta che gli venne in mente.
Marco aveva già vinto tre tappe, era facile prevedere che ci avrebbe provato anche il giorno dopo. Poi si incamminò verso il camper, pensando che fosse tutto molto strano. Cosa voleva dirgli Costa? Cosa aveva fiutato? Ma era soprattutto quella battuta sul Gavia e sul fermare piuttosto Pantani che lo lasciò parecchio perplesso.
Avrebbero parlato con suo figlio per raccomandargli di non attaccare come cinquant’anni prima era successo con il grande Binda?
Preferì non pensarci più e arrivò al piazzale dell’hotel dove aveva parcheggiato il camper.
Cannavò e carabinieri
«La sera del 4 giugno – racconta – nell’albergo venne anche Candido Cannavò, il direttore della Gazzetta dello Sport. Restò lì a mangiare nella tavola con Marco, ma io ero in disparte e non so cosa si dissero. Vidi solo che Marco mangiò poco e niente, aveva la faccia scura. Parlavano e discutevano. Avevo il camper a dieci metri dall’albergo e mi ricordo benissimo che già dopo l’arrivo c’era un traffico incredibile di carabinieri. C’erano otto o dieci uomini che giravano attorno a quella zona. Va bene che eravamo a duecento metri da dove il giorno dopo ci sarebbe stato il ritrovo, però… E mi ricordo che anche dopo cena c’era questo via vai di carabinieri, che giravano lì intorno. Che cosa stava succedendo quella sera? Ero sempre nei paraggi, negli alberghi, dentro dove c’erano le sale stampa. Non avevo mai visto tanti carabinieri. Ma mi dissi che erano curiosi anche loro o forse erano lì per proteggere Marco e me ne andai a dormire».
Ceruti e il diavolo
Marco ripartì il giorno dopo da Madonna di Campiglio assieme a Martinelli.
Lo fecero uscire dall’albergo come un criminale, ma trovò la forza per parlare. Pronunciò parole pesanti come il piombo, poi sparì nell’ammiraglia e il Giro d’Italia se ne andò senza di lui, senza che nessuno fosse andato nella sua stanza per mettergli una mano sulla spalla, per capire, sentire come andasse o semplicemente per insultarlo. Se ne andò nell’indifferenza generale, come se le belle parole usate fino al giorno prima non fossero mai state pronunciate né scritte.
Tra i tavoli della sala stampa, quel giorno il presidente federale Ceruti (scomparso a marzo 2020) andò sorridendo dai suoi amici più stretti a dire che avevano fermato il diavolo e che non c’era solo lui con il sangue in difetto, ma tutta la sua squadra.
Non fu antidoping
Fu un controllo per tutelare la salute di Pantani. Non fu un controllo antidoping. Parlarono di positività, ma nessuno dal suo entourage avrebbe mosso un dito per denunciare l’imperdonabile imprecisione.
Si fermarono a Imola per mettere i punti alla mano ferita e ripeterono gli esami del sangue e quando ebbero la certezza che fossero nella norma e lo dissero ai tanti giornalisti che chiamarono, si sentirono rispondere dall’istituizione che durante il viaggio potevano aver combinato qualcosa.
A Imola invece i medici dissero che sull’ematocrito si poteva anche intervenire, ma che l’emoglobina era la stessa di sempre e l’emoglobina non la modifichi in così breve tempo. Ma nessuno ci prestò ascolto, né lo difese. Tutti si misero a smentire qualunque cosa Marco dicesse.
Fango e distruzione
Arrivò a casa e già c’erano fotografi e telecamere ad attenderlo. Si chiuse dentro. Tonina non ricorda di preciso cosa accadde, perché fu come se un fiume avesse spazzato via la sua vita precedente, portando solo fango e distruzione. Ricorda bene però la visita di Savini.
«Tonina – le disse – è andata bene così, perché altrimenti lo facevano fuori. Dai retta a me, è andata bene così. Mi hanno chiamato con un accento del Sud e mi hanno detto che è andata bene così».
Ricorda Tonina che Savini disse di non poter aggiungere altro, aveva paura che gli facessero saltare l’officina.
«Disse che non lo avrebbero fatto più lavorare – racconta Tonina – e a me sembrò tutto molto strano. Ma in quei giorni cosa c’era di normale? Mi ricordo questo casino di giornalisti… Non potevi mettere il naso fuori che vedevi dei gran flash. Dietro, in mezzo agli alberi, davanti. E’ stata una settimana da incubi. Venivo sotto, accendevo la tivù e ci vedevo i miei cancelli».
L’inizio della fine
«Paolo una volta andò al chiosco a prendere da mangiare e gli si buttarono sul cofano. Chiamò anche i carabinieri, ma gli risposero che purtroppo la strada è di tutti. Il giorno dopo smontò dalla macchina e li invitò ad andarsene. Disse: “Passi lunghi e ben distesi” e il giorno dopo sui giornali uscì che il padre di Pantani si era montato la testa con i soldi del figlio. E Marco intanto era rinchiuso dentro e si tormentava. Ma sai quante manifestazioni ha fatto mio figlio contro la droga? Tutti questi ragazzi con i palloncini contro la droga e lui con loro… Lo diceva anche il suo amico Gianni. Loro a quelle cose lì non ci pensavamo. Poi però lo hanno perso di vista. Lui si è chiuso e la sua manager ha allontanato tutti i suoi vecchi amici. Lo ha isolato, forse per proteggerlo, non lo so. Ma non capisco questa gente che è arrivata dopo da dove sia venuta fuori. Quelli non erano amici di Marco. Da loro non doveva essere protetto?».
Testo tratto da “Era mio figlio” – Tonina Pantani con Enzo Vicennati – Edizioni Mondadori