«La foto che in tanti anni mi ha dato più emozioni – dice Ilario – fu quella del podio di Parigi con Gimondi. La foto più facile che ci sia. Scattavo e pensavo: cavoli, questa è storia. L’Italia non vinceva il Tour dal 1965 e io ero lì ai piedi del podio, con Marco e Felice. Poi partì l’Inno di Mameli e… Ancora adesso a raccontarlo mi emoziono!».
Ilario Biondi ha 62 anni e dal 1983 fotografa ciclisti e corse. Somiglia a Robin Williams, tanto che quando lo incontrammo al Tour de France, anche l’attore americano ne rise. Il pizzetto e i capelli ingrigiti, giornalista fin nel profondo, per i primi trent’anni ha scattato foto per Bicisport, poi ha intrapreso una nuova strada assieme all’amico Roberto Bettini. A pochi altri Marco Pantani concesse le stesse aperture.
Quando sentisti parlare di Marco per la prima volta?
Nel 1990, al Giro d’Italia, l’anno che i dilettanti correvano sullo stesso finale dei professionisti. Sergio Neri, che è di Rimini, mi suggerì di fare un po’ di foto a questo ragazzino che poi sarebbe arrivato terzo. Ricordo la foto di Sacromonte, con lui, Belli e Gotti seduti su un gradino. Sembravano tre bambini. A pensare a quella foto, forse Belli è stato quello che ha vinto meno, ma se c’era qualcuno in gruppo con cui Marco parlava volentieri, quello era proprio Wladimir. Marco stava con i compagni, con Belli e Cipollini. Il primo contatto vero fu però nell’inverno del 1992, dopo la vittoria del Giro dei dilettanti, quando andammo insieme a Cesenatico. Sulla spiaggia, sulle barche dei pescatori, al ristorante da Franciosi fingendo di cucinare le tagliatelle…
Impossibile da dimenticare. Per non parlare di Agrigento…
Esatto, ai mondiali. Martini lo aveva messo in camera con Chiappucci, magari qualche anno dopo non lo avrebbe più fatto. Comunque entrai in camera che aveva appena finito di depilarsi le gambe con la lametta e siccome capì che sarebbe stata una foto simpatica, accettò si rimettersi addosso la schiuma e finse di radersi. Era davvero un altro modo di lavorare, adesso sarebbe quasi impossibile…
Com’era davanti all’obiettivo?
A suo agio, sin da subito. La timidezza spariva, perché Marco era timido. Ho sempre detto che soltanto due corridori trasformavano anche la foto più banale in un capolavoro. Lui e Armstrong. Gli altri, da Bugno a Nibali, non hanno mai avuto la stessa intensità nello sguardo.
Che tipo di rapporto c’era fra Marco e Ilario?
Privilegiato, forse per come mi sono sempre comportato o perché lo seguivamo da tanto. Mi ha permesso di fare foto che nessuno ha mai fatto. In camera. Sul camper durante il Tour. Mi bastava incrociare il suo sguardo per capire se potevo avvicinarmi e di quanto. Ti ricordi la sera del 1998 sul lago a Fois?
Aveva appena vinto a Plateau de Beille, serata tiepida fuori dall’hotel…
Quelle sono situazioni che abbiamo vissuto perché si fidava. Feci tre scatti senza rompere oltre e Marco capì. Se mi fossi messo a scattare in continuazione, sarei stato un fastidio. Invece ci mettemmo lì a parlare di pesca e altre cose, tranquilli, recuperando dopo una tappa dura.
Quali sono le foto che ricordi più volentieri?
Del podio di Parigi abbiamo già detto. Poi la foto in curva con l’acqua sull’Alpe d’Huez. Quindi i momenti in camera, quando ci divertivamo a inventare le pose. Dal cuscino infilato nella maglia rosa a quando scelse lui il modo di lanciarla a Garzelli nel 2000. Mi sono sentito un privilegiato.
Cambiò qualcosa dopo la vittoria del Tour?
Nel 1999 era un Pantani diverso. Sembrava onnipotente, ma conoscendo il suo carattere si vedeva che lo faceva per difendersi. Era meno sciolto dell’anno prima, pensa a quante pressioni aveva. Sportivamente era Dio. Ma si allenava tanto. Nel giorno in cui lo seguimmo in allenamento a Terracina, si prestò per tutte le foto e poi quando i compagni rientrarono, lui fece altre due ore da solo. Al ritorno, in hotel trovò Pezzi e Gimondi.
Giro d’Italia 1999, tappa del Gran Sasso…
Ero accanto a lui sulla moto quando scattò. Mise le mani sotto, si alzò sui pedali e buona notte a tutti. Quando si trattò di scendere, era circondato da 2-3 carabinieri che dovevano scortarlo verso la funivia. Io intuii il movimento e mi infilai dietro e salii assieme a loro. Marco mi vide, non potevo starci, ma non disse nulla. C’era anche Fontanelli, che gli chiese: «Panta, ma come hai fatto?!». Lui lo guardò e mimò il gesto di dare gas alla moto.
A Campiglio, infine…
Fu drammatico. Andai su molto prima rispetto al solito, perché ci attendeva una tappa cruciale. E al centro del Villaggio vidi due signori in un angolo: Neri e Cannavò. «Pantani non parte», disse Neri. Mi misi a correre verso il Touring seguito da Claudio Di Benedetto. E per non fare il giro largo, mi misi a scavalcare muretti e aiuole. Arrivammo su e vedemmo gente che piangeva. Ricordo Veneziano, il meccanico. Aspettammo tantissimo, finché un giovanissimo Andrea Agostini gestì la famosa conferenza stampa.
Tutto il giorno sotto all’hotel, aspettando?
A un certo punto vidi Giannelli che si allontanava portando in mano i tesserini dei corridori. Gli chiesi: «Ale, dove vai?». Mi rispose che andava da Castellano. Lo seguii, andò a comunicare che la squadra non sarebbe ripartita. La cosa singolare è che a Campiglio tornammo quello stesso inverno per un ritiro e ricordo una serata con Magrini che cantava…
Molino Rosso di Imola, servizio fotografico da rifare…
Neri faceva dei servizi in cui metteva a tavola Martini con un altro personaggio e quella volta toccò a Marco, Campiglio era già successo. Si presentò tardissimo, ma fu disponibile. Il guaio fu che quando tornai a Roma, mi resi conto che le foto non erano venute. Si trattava di rifarle, di convincere Martini e portare Marco. Onestamente non credevo che sarebbe venuto, ma clamorosamente andò in porto. Forse fu il suo modo di darmi una mano.
Nel frattempo lo sguardo cambiò?
Non direi. L’unica volta che lo vidi quasi perso, con le lacrime agli occhi, fu nella caduta del Sampeyre. Mi fece male vederlo cadere e stare lì fermo con quell’asciugamano sulle spalle, mentre Amadori lo pregava di non ritirarsi. Era come se fosse crollato tutto, era nei 10 e finì fuori classifica. Gli era costato tanto arrivare sin lì…
Ilario, ti ricordi del funerale?
Una situazione che non avrei voluto vivere. Entrai in chiesa e mi trovai davanti Tonina che urlava, una scena che mi ha straziato, quello che ricordo di più e che mi ha segnato. C’era una marea di gente e anche quel residence… Non mi capacitavo che potesse essere finito così.
Ti ricordi che bello quando rideva?
A proposito di ridere… Arrivo delle Deux Alpes, Marco si stava prendendo il Tour. Era buio pesto e avevo soltanto una pellicola Fuji 100 asa, scattavamo in diapositiva al tempo. Quella foto sarebbe entrata nella storia. E così per evitare che venisse completamente buia, decisi di tirare la pellicola di 2 stop e mezzo. Non lo avevo mai fatto in vita mia, praticamente scattai a 640 asa. Feci tre foto. Quando tornammo a Roma, andai da Ernesto al laboratorio e gli chiesi se avesse mai sviluppato una pellicola tirata a quel modo. Lui disse di sì e che comunque sarebbe stato attento. Vennero tre foto perfette. Marco non era uno che faceva tanti festeggiamenti sul podio, ma quella volta urlò come un pazzo.