Milano ha ospitato nei giorni scorsi un corso accelerato per illustrare ai neoprofessionisti italiani che cosa li aspetta. L’iniziativa è ormai un appuntamento tradizionale che coinvolge tutte le parti principali del movimento nazionale, dalla Federazione alla Lega. Quest’anno l’evento allestito al Palazzo del Coni dall’ACCPI ha coinvolto un numero maggiore di ragazzi rispetto al solito, ben 22 new entry grazie anche al passaggio fra le Professional dell’MBH Bank. Con loro anche la neopro Matilde Vitillo, approdata alla LIV AlUla Jayco, mentre erano assenti Francesca Pellegrini (Uno-X Mobility) e Federica Venturelli (UAE Team ADQ).
A raccontare l’iniziativa è il presidente dell’ACCPI Cristian Salvato, che ha subito fortemente creduto nella sua importanza, ancor di più oggi che il ciclismo sembra immerso in un frullatore da dove emergono continue novità: «Tutto è nato anni fa, se non ricordo male la prima edizione risale al 2010. E’ curiosa la storia della genesi di quest’iniziativa: l’idea è nata perché avevo visto un articolo su Danilo Gallinari, quando è approdato all’NBA. Era già un giocatore professionista, ma appena approdato lo hanno portato in un albergo per fargli fare una full immersion di 3-4 giorni dove gli hanno spiegato tutte le regole di quel mondo, dalla circonferenza del pallone a come gestire i soldi del post carriera. Noi certo non siamo l’NBA, ma abbiamo pensato a questo corso per dar loro spiegazioni sui diritti e i doveri del corridore».


Il corso si è evoluto negli anni?
Moltissimo. Siamo cresciuti, abbiamo aggiunto sempre più cose e contributi. Vediamo che ha un buon successo, è apprezzato dai ragazzi. Ad esempio quest’anno abbiamo dedicato uno spazio particolare alla spiegazione del Protocollo Adams per l’antidoping. Ai ragazzi spiegavo che nel corso degli anni potranno cambiare squadra, amicizie, morose, ma quel che non cambierà sarà proprio il Protocollo finché saranno professionisti…
Ti sarebbe servito un corso simile quando sei passato professionista tu, nel 1995?
Altroché… Quando sono passato, nessuno mi ha spiegato niente tranne il classico compagno di camera che ti accennava qualcosa. Erano altri tempi, sicuramente. C’erano anche manager da Far West e aver avuto un’istruzione sarebbe stato molto importante per quanto riguarda i diritti contrattuali. I contratti erano dei lenzuoli e i pagamenti erano un po’ più… a maglie larghe, diciamo che erano più “creativi”.


La situazione relativa è migliorata?
Sicuramente. A parte che i contratti sono di anno in anno, di contestazioni ne trovo veramente poche, anche perché ci sono le fidejussioni, i diritti. Ma c’è un altro aspetto che mi colpisce ed è l’età media sempre più giovane. Io quando sono passato professionista ero al quinto anno da dilettante, ma era abbastanza normale, anche perché c’era il blocco olimpico. A 21 anni passavano i fenomeni. Adesso invece un ragazzo al primo anno è già qui.
Com’era strutturato il corso?
Avevamo numerosi contributi, ognuno con un team specifico: del Protocollo Adams hanno parlato Martino Pezzetta dell’UCI Lega Anti-doping Service e Carmel Chabloz dell’agenzia ITA. Altri argomenti erano Contratti e Istituzioni dei Team Professionistici. Benessere e salute mentale dell’atleta. Premi, diritti e doveri del corridore. Rapporto con i media e utilizzo dei social. I ragazzi hanno seguito tutto con grande interesse, emozionandosi quando da Gand si è videocollegato Elia Viviani, in una pausa della Sei Giorni.


Un segno della maturità diversa che hanno i ragazzi?
Per certi versi sì, secondo me per loro è anche più complicato orientarsi per ragazzi così giovani che hanno anche un riferimento in più nei procuratori e nei loro interessi non sempre coincidenti con quelli dei loro protetti. Io l’esempio che faccio sempre è quello di Lorenzo Finn, un talento assoluto, vincitore del titolo mondiale da junior e subito dopo anche da Under 23. Poteva passare direttamente, invece ha scelto di fare due anni da dilettante, perché sa che quelle esperienze che accumulerà gli verranno utili. Io credo che sia proprio l’esempio perfetto da portare di come bisognerebbe passare professionista.
Come giudichi una presenza così massiccia di corridori?
Certamente il gruppo MBH Bank aggiungeva presenze, ben 8 solo di quel gruppo, ma ce n’erano anche 6 di devo team del WorldTour con unico assente Agostinacchio perché in gara nel ciclocross. Tutti ragazzi, quello un po’ più grande era Gaffuri.


Che segnale è?
Io credo sempre a un rinascimento del ciclismo italiano. E’ un bene che abbiamo quattro squadre Professional, purtroppo non sono di altissimo livello per il budget a disposizione, non per la qualità degli sponsor e anche dei manager che le seguono. Ma il dio denaro comanda sempre di più.
Una cosa che sta emergendo sempre più è che molti ragazzi lasciano la scuola per seguire il loro sogno ciclistico. Avveniva anche ai tempi tuoi?
Diciamo ai tempi miei eravamo di più che sacrificavamo la scuola per il ciclismo. Adesso la scuola è un po’ cambiata, io mi ricordo che ai tempi miei c’erano dei professori che mi guardavano male quando chiedevo un permesso per andare a fare una gara o per un ritiro. Adesso i ragazzi hanno delle facilitazioni e molta più comprensione, è molto meglio. Tra i ragazzi avevamo Gaffuri che ha già una laurea e altri 2-3 ragazzi che seguono corsi universitari, quindi la situazione è migliore di quanto si pensi.


I ragazzi come si sono comportati?
Meglio di quanto pensassi. Parliamo di ragazzi giovani, tenerli chiusi per un giorno dentro una sala è quasi una tortura. Eppure ho visto che i telefonini li tenevano in tasca ed erano interessati a quel che veniva detto, anche perché negli anni abbiamo raffinato sempre di più quello che gli proponiamo. Ad esempio l’intervento di Marco Velo sui dispositivi di sicurezza, su com’è costruita la carovana sulla strada. Faceva delle domande e la maggior parte non sapeva come muoversi al suo interno e dove sono posizionate le varie parti. Li vedevo attenti.
Hai avuto la sensazione della consapevolezza di dove sono, di quello che li aspetta?
Questa è una bella domanda. Dipende molto dalla persona. Rispetto a una volta il salto da professionista è molto più grande, io vedevo un professionista come una star. Adesso i ragazzi sono già a contatto con i pro’ nelle corse open, c’è una contaminazione diversa, quindi sono più preparati, abituati.