Si ha un bel dire che quando finisci secondo in una classica come la Gand-Wevelgem, è un grande risultato. Christophe Laporte non ci ha dormito per tutta la notte e quello sprint l’ha rivissuto nella testa centinaia di volte. Il ciclismo non è come gli altri sport: se arrivi secondo sei solo stato battuto, senza storie (Olimpiadi a parte, è chiaro…). Sui giornali e in televisione, anche nei giorni dopo non si fa che parlare di Biniam Girmay e delle nuove frontiere del ciclismo, ma come sarebbero andate le cose se quella volata l’avesse condotta con un po’ più di giudizio?
«Mi sentivo in grado di vincere – raccontava al traguardo ai giornalisti del suo Paese – anche se sapevo che uno sprint a 4 è sempre rischioso. All’ultimo chilometro mi sono però ritrovato avanti, in testa e nessuno voleva passare. Impostare la volata così è molto difficile, soprattutto se devi controllare gli altri. Girmay è stato velocissimo, io con quel vento pensavo che partire ai 250 metri dal traguardo fosse un azzardo, pensavo di poterlo rimontare, ma andava troppo forte. Quel che soprattutto mi fa arrabbiare (ma il termine usato è stato un altro… ndr) è non aver onorato il grande lavoro del team».
Migliori risultati, maggiori delusioni…
A chi gli faceva notare che proprio alla Gand Laporte ha sempre ottenuto i suoi migliori risultati nella Campagna del Nord (è stato quarto nel 2018), il francese della regione del Var ha risposto un po’ stizzito: «Non è la gara più adatta a me se poi ai migliori risultati corrispondono anche le maggiori delusioni». A conferma che alla fine conta solo chi vince…
Parlava del team e non potrebbe essere altrimenti. La sua carriera, da quando è approdato nello scorso autunno alla Jumbo Visma è cambiata totalmente, anzi si potrebbe dire che Laporte sia finora il corridore che ha fatto vedere il maggior salto di qualità in questo periodo e considerando che parliamo di un ciclista di 29 anni non è poco. Probabilmente neanche lui stesso pensava che un simile cambio avrebbe rappresentato tanto, ma i prodromi c’erano tutti, sin dal suo approccio.
Un cambio alle radici
A dicembre, per la firma del contratto Laporte è stato chiamato nella sede della società e si è ritrovato in una stanza con un diesse e un preparatore. Pensava fosse un incontro di routine, invece si è trovato a parlare per tre ore e mezza. Un colloquio chiarificatore, nel quale Christophe si è messo a nudo, perché volevano conoscere le sue aspettative, i suoi timori, soprattutto quel che era disposto a sacrificare: «Noi possiamo cambiare tutto nella tua storia ciclistica, ma tu lo vuoi veramente?». Laporte ha detto sì, e lo hanno preso in parola.
Sin dal primo stage, un’occasione più per conoscersi che con reali aspettative tecniche. Viaggio a Tenerife, con l’obiettivo di fare gruppo. «E’ stata dura – ha raccontato in seguito Laporte – è stato un cambio brutale perché io sento molto la mancanza della mia famiglia, di Marion e del piccolo Marlo, quando sono tanti giorni mi deprimo, ma era questo che veniva inteso nel discorso iniziale, servono grandi sacrifici per arrivare al traguardo».
Che sofferenza i ritiri…
Figurarsi poi al ritiro prestagionale di 3 settimane. Quel che Laporte non aveva preventivato e che ha di fatto cambiato le sue prospettive è stato però da una parte l’atteggiamento della squadra, dall’altro le aspettative riposte su di lui: «E’ una squadra fortissima, dove nulla è lasciato al caso, ma dove ti chiedono di lavorare duro, sempre. Quel ritiro di 3 settimane in altura, e chi l’aveva mai fatto? Ma i frutti sono evidenti».
Si diceva delle aspettative. Quando lo hanno chiamato, Laporte pensava di entrare in una formazione talmente forte da essere uno dei tanti al servizio dei campioni: Roglic per le corse a tappe (anzi per “la” corsa, il Tour che per lo sloveno ha capito essere un chiodo fisso), Van Aert per le classiche e Vingegaard come talento rampante. Invece no, pian piano ha capito che arrivava in squadra con molte attese, quasi come un capitano, almeno in alcune gare, una vera alternativa ai leader.
L’importanza del divertirsi
Lo hanno accolto con grande entusiasmo e quell’arrivo in parata nella prima tappa della Parigi-Nizza, con Van Aert e Roglic a fargli da valletti, è stato il degno regalo di benvenuto: «Quando eravamo in prossimità dell’ultimo chilometro, mi hanno detto che sarei stato io a vincere. Non ci credevo, è stato davvero un bel gesto».
Chissà, forse anche una ricompensa dopo periodi difficili. Basti pensare al 2020: l’anno era iniziato in Argentina con una brutta caduta, polso rotto e avvio di stagione gettato via. Neanche il tempo di liberarsi del tutore ed ecco che scattava il lockdown. Praticamente impossibile raggiungere la miglior forma in quell’annata così strana. Aveva anche un po’ perso gli stimoli e per il transalpino la spinta psicologica è fondamentale.
«Io vinco solo quando mi diverto – ha spiegato – è fondamentale. Per me le classiche sono centrali nella stagione insieme al Tour, ma posso emergere solo se sento dentro di me il giusto feeling, se sento che sto facendo la cosa giusta nel giusto modo. E in questa squadra mi diverto molto. Salvo domenica scorsa…».