Le fatiche del Giro sono alle spalle e Stefano Garzelli, in attesa dei prossimi impegni è tornato nel suo “buen retiro” spagnolo per godersi un po’ la famiglia. Il suo primo Giro da opinionista Rai è alle spalle e l’esperienza è stata molto positiva.
«E’ stato qualcosa di realmente diverso dal solito – dice – non è la stessa cosa che qualsiasi altro ruolo televisivo. A me piaceva raccontare la corsa pensando che mi rivolgevo a chi non è del mestiere, non segue tutta la stagione e sa tutto di ruote, mozzi, allenamenti e strategie. Ho cercato di raccontare questo evento come qualcosa di nuovo».
Giro esaltante, mai scontato
E’ stato un Giro molto particolare e riviverlo adesso, a qualche giorno di distanza permette di sottolineare e cogliere aspetti che magari sono stati un po’ coperti dal grande risalto dettato dal suo epilogo a sorpresa: «Diciamo che il primo vincitore del Giro è… il Giro. Perché è stato sempre incerto, diverso, mai monotono. Non è facile dare giudizi, sento parlare di fallimenti, ma bisogna anche guardare le singole storie e il Giro ne ha raccontate tante. Un esempio: come si fa a criticare Tiberi? La sua corsa è stata totalmente condizionata dalla caduta, dopo non era più lui perché la botta era stata forte».
E’ vero ma come si fa a non giudicare negativamente (se proprio non vogliamo usare la parola fallimento) la corsa della UAE, per quanto il secondo posto di Del Toro sia carico di prospettive? Non è che la squadra non era abituata a gestire una situazione diversa non avendo Pogacar in corsa?
La UAE e le gerarchie non rispettate
«Con Tadej è facile correre, praticamente non devi fare nulla… Io credo che qualche errore ci sia stato, innanzitutto nella gestione della gerarchia. Ayuso, per quel che aveva fatto a Tirreno-Adriatico e Catalunya, era il capitano. Alla tappa delle strade bianche è caduto, a quel punto perché Del Toro ha allungato? Era con Bernal e Van Aert, ma non doveva esserci perché la gerarchia imponeva che stesse col capitano. Ciò ha dato a lui la maglia ma ha tolto tranquillità al gruppo, ha mostrato crepe che alla fine sono esplose».
La vittoria di Yates ti ha sorpreso? «So che lui preparava la tappa del Colle delle Finestre da novembre, aveva un conto in sospeso. Ha corso in maniera intelligente, sempre coperto, ma la sua forza è stata soprattutto essersi gestito prima del Giro. Non è un caso che sul podio sono finiti corridori che in primavera non si sono praticamente visti, salvo la vittoria di Del Toro alla Milano-Torino. Ad eccezione di Pogacar, chi va forte a marzo poi a maggio paga dazio. Lui è stato attento, poi la squadra lo ha supportato al meglio».
Pellizzari tutelato dalla Red Bull
Sulla Visma-Lease a Bike Garzelli ha parole di miele: «Hanno saputo tenere la corsa sempre sotto controllo. Van Aert è stato portato per la tappa delle strade bianche e l’ha vinta, poi avrebbe anche potuto tirare i remi in barca, invece è rimasto in gruppo e si è messo a disposizione. Yates dal canto suo aveva provato a Champoluc, ma ha subito capito che non c’era spazio per sovvertire la classifica e ha rinviato al giorno dopo, è stata una scelta molto saggia. Al sabato è stato un capolavoro di strategia, con Van Aert in avanscoperta che poi ha fatto da fantastico pesce pilota. Tattica indovinata, niente da dire».
Nell’ultima settimana del Giro e anche dopo è stato un fiorire di giudizi su Pellizzari, parlando di quel che avrebbe potuto fare se non fosse stato al servizio di Roglic… «Torniamo al discorso di prima: in un team ci devono essere gerarchie definite e la Red Bull le ha fatte rispettare. Pellizzari il Giro non doveva neanche farlo, è stato Roglic che lo ha voluto in squadra. Lui ha fatto il suo dovere e quando lo sloveno è caduto si è messo al suo servizi perché è questo che fa un luogotenente. Mi ha ricordato il Giro del ’97, quando Pantani cadde e perse 15 minuti. Io rimasi con lui, finii quel Giro 9° ma senza quel quarto d’ora sarei stato 4°. Eppure non mi sono mai pentito, neppure per un istante, di quella scelta, perché in quel momento il mio posto era accanto a Marco».
Il Giro degli italiani
Alla Red Bull avranno ora capito che Pellizzari è un leader? «Lo sapevano già da prima – sentenzia Garzelli – anzi io dico che lo hanno preso proprio con quell’idea. Non avevano preso uno qualunque, ma un prospetto per le corse a tappe, capace di vincerle. Per questo non avrebbero voluto neanche portarlo al Giro, ma come detto Roglic la pensava diversamente, poi le cadute sua e di Hindley hanno cambiato i rapporti in squadra. Ora sanno che tiene anche le tre settimane, il Giro ha dato loro ulteriori risposte».
In generale come giudichi questo Giro in chiave italiana? «Si potrebbe pensare che, con una sola vittoria di tappa, sia stato deficitario ma non è così. Io dico che è stato buono, ma molto sfortunato viste le cadute di Ciccone e Tiberi. Però abbiamo avuto Caruso che ha fatto un capolavoro e io l’ho sottolineato subito perché a 37 anni finire in top 5 ha un valore enorme. Era giustamente l’uomo di Tiberi, poi ha saputo sfruttare la sua esperienza, ma soprattutto ha mostrato di avere una grande condizione perché senza di quella non vai avanti».
Caruso, un capolavoro a 37 anni
Non è che il suo risultato è passato un po’ troppo sotto silenzio? «Non credo – afferma Garzelli – noi alla Rai l’abbiamo sempre sottolineato. Poi lo so bene, anch’io fui 5° a 37 anni vincendo due tappe e farlo con gente molto più giovane di te significa molto. Ma ci sono stati anche altri italiani che mi sono piaciuti, come Affini, Garofoli pur abbastanza sfortunato, senza dimenticare Fortunato vincitore della maglia azzurra. Non dimentichiamo poi che è stato un Giro condizionato dalle cadute, almeno 5 da primissime posizioni sono stati messi fuori gioco e questo, sull’esito finale, ha contato molto, ma si sa che per vincere anche la fortuna ha un suo peso».