La banalità non è mai appartenuta a Philippe Gilbert. E se prima aveva il suo bel da fare a gestirsi la vita da star a suon di vittorie, il lockdown e un infortunio di troppo (il secondo, al Tour del 2020) gli hanno lasciato come eredità il gusto e la possibilità di parlare chiaro. Non tutti lo fanno e ne avranno i loro motivi. Quando però accade, viene idealmente da sedersi ad ascoltare. Così alla vigilia della Roubaix, di cui è l’ultimo vincitore, il belga che da anni vive a Monaco dove ha anche aperto un negozio di bici (The Bike Shop), ha raccontato a L’Equipe un po’ dei suoi pensieri.
Sulla Roubaix
«Indosserò il pettorale numero 1, è un riconoscimento e un vero orgoglio. Nessuno avrà dubbi che sia io l’ultimo vincitore, ma in termini di ambizioni non è la stessa cosa. Posso anche dire che non ne ho. Già, in termini di equipaggiamento, non avrò lo stesso vantaggio di due anni fa quando correvo sulle migliori bici al mondo. Ricordo Nils Politt che era con me nel finale (foto di apertura, ndr). Pensai che probabilmente era forte quanto me, ma non aveva la stessa bici.
«In questi giorni non ho sentito lo stesso fervore della primavera. Non abbiamo il solito accumulo di pressione, quello che inizia ad Harelbeke poi alla Gand-Wevelgem e al Giro delle Fiandre. La Roubaix è il culmine di un ciclo della stagione, mentre qui arriviamo senza un punto di riferimento. Sono mesi che non corriamo sul pavé. Penso che per stare bene alla Parigi-Roubaix, abbiamo bisogno di quelle gare che permettono al corpo di acclimatarsi, di sopportare le sofferenze. La gamba deve girare sul pavé di Roubaix. Due anni e mezzo fa al via a Compiegne sapevo di essere pronto per la vittoria, non sono sicuro che stamattina molti possano dire lo stesso».
Sul lockdown e il ciclismo
«Il Covid ha cambiato tutto. Spesso avevo la sensazione guardando le gare che tutti avessero ancora più fretta di vincere, come se ogni corsa fosse l’ultima che facevano. Improvvisamente, gli atleti maturi come me hanno cominciato a soffrire. Sono uno che ha bisogno di allenarsi, mi ha disturbato non poter lasciare Monaco per andare verso l’entroterra francese. E anche se adesso tutto è tornato normale, ho l’impressione che ci stiamo divertendo molto meno. Sarà una semplice evoluzione, ma non riconosco più il mio sport.
«Anche io a 39 anni non sono più lo stesso corridore di prima, questo è certo. Ho sempre avuto grandi stagioni. Prima che l’UCI fissasse i limiti, correvo dai 95 ai 100 giorni all’anno e non perdevo mai più di un mese intero senza essere all’altezza. Oggi per me è tutto più complicato».
Sul tempo che passa
«Proprio la sera della vittoria a Roubaix, un giornalista mi fece per la prima volta la domanda quando mi sarei ritirato. Mi sorprese e un po’ mi infastidì. Ricordo che gli risposi duramente se volesse che me ne andassi, se gli dessi fastidio. Ora questo tipo di domanda mi tocca a ogni intervista e mi infastidisce seriamente. Ho annunciato che arriverò alla scadenza del mio contratto alla fine del 2022, ma non so come andrà a finire la mia carriera. Forse questa sarà la mia ultima Parigi-Roubaix, forse no. Non ho ancora idea del mio programma per la prossima stagione, la domanda sorgerà soprattutto per i grandi Giri. Questo è ancora il mio posto, alla mia età? Ne ho parlato durante il mondiale con Tchmil, Darrigade e Zoetemelk. Mi hanno consigliato di approfittare di quest’ultimo anno per accumulare ricordi.
«Però non c’è frustrazione. So da dove vengo e so quanto abbiano pesato le due cadute del Tour (nel 2018 e appunto nel 2020). Ogni volta sullo stesso ginocchio, il sinistro. La seconda soprattutto ha avuto conseguenze pesanti. Non sono più lo stesso. Prima i corridori prendevano la mia ruota per posizionarsi nel posto giusto, ora sono io che mi metto dietro qualcuno che sta per attaccare. Magari sembra un piccolo dettaglio, ma per me è un enorme cambiamento nel modo di correre».
Sui vecchi tempi
«Sono un ciclista diverso dai ragazzi di oggi. Sono sempre stato molto serio, ma prima in gruppo ridevamo di più. C’erano corse che cambiavano, fughe e taciti accordi tra le squadre per lasciarsele andare, mentre oggi si litiga in partenza e ci sono anche uomini forti che si mettono davanti. Prima i distacchi arrivavano fino a venti minuti, potevamo anche fermarci per un caffè, ma sapevamo che il gruppo sarebbe arrivato. Ora con tre minuti di vantaggio, una fuga può arrivare fino in fondo. E’ cambiato tutto, abbiamo meno tempo per ridere.
«Sono spesso in contatto con Evenepoel e soprattutto con i suoi genitori, che mi chiedono consiglio perché non ha un manager e non ha intorno grandi persone. E’ un corridore fenomenale, fisicamente e mentalmente, ma quello che gli sembra più importante oggi è la sua immagine. Aumentare i follower sui social e temo che questo si ritorcerà contro di lui. Non lo sto criticando, ma gli consiglio spesso di mollare un po’, perché i social non sono la vita reale. Tra le persone che lo seguono, ci sono tanti account falsi, società di marketing e cose del genere. Il resto sono fan che ovviamente sono esigenti con lui. Per lui va tutto veloce, ma è anche colpa sua perché ha fretta di arrivare».
Sui giovani
«Oggi il ciclismo è più coerente di quando ho iniziato. Per molto tempo mi sono chiesto cosa ci facessi in mezzo a quelli che giravano con le sacche di sangue. C’era un abisso tra gli anziani e noi. Di conseguenza, abbiamo imparato a vincere molto più tardi rispetto alla generazione attuale. Ovviamente loro si stanno comportando come avremmo dovuto fare anche noi, ma non lo sapevamo. E visto che ci riescono, sono più ambiziosi di noi alla stessa età.
«Solo che alcuni sono totalmente disconnessi dalla realtà, vivono in un altro mondo senza preoccuparsi dei più grandi. Alcuni però sono rispettosi. Quando vedo Pogacar venire con sua moglie nel mio negozio di biciclette a Monaco e aspettare il suo turno come tutti gli altri per fare una regolazione sulla sua bici, lo trovo rassicurante. E’ gentile e semplice nonostante abbia vinto due volte il Tour de France. Armstrong al suo posto non si sarebbe nemmeno mosso da casa, avrebbe mandato uno dei suoi compari».