Il Giro d’Italia è alle porte e presto catalizzerà tutta l’attenzione. Tuttavia vogliamo soffermarci ancora un po’ sul Tour of the Alps. La corsa transfrontaliera ci ha colpito per la sua crescita e la sua buona organizzazione. Ci siamo chiesti sin dove può arrivare.
Le sirene del WorldTour, con un evento del genere, possono risuonare da un momento all’altro. Abbiamo fatto il punto con Maurizio Evangelista, general manager della corsa.
Maurizio, una corsa davvero ben riuscita…
È un progetto impegnativo e lo rendiamo sempre più impegnativo perché cerchiamo costantemente di migliorare. Però ne vale la pena, perché è una corsa bellissima in un territorio bellissimo, con degli enti che s’impegnano e ci credono. Quindi meritano il meglio possibile.
Il vostro Garibaldi era davvero ben curato: contenuti interessanti, anche extra corsa. Ci ha colpito il messaggio di pace, tanto più in questo momento storico, della collaborazione fra diverse Nazioni e minoranze etniche…
Due Stati possono significare qualche piccolo problema burocratico in più. L’Europa unita, su certi aspetti, lo è ancora in maniera imperfetta.
Come le moto della Polizia ferme al confine e pronte quelle austriache…
Ci sono tre realtà, Trentino, Alto Adige e Tirolo (quest’anno nella zona dell’Osttirol, ndr) molto diverse tra loro. Anche perché molto diversa è la loro familiarità col ciclismo. Il primo ha una tradizione solida, gli altri due molto meno. Però devo dire che uno dei tornaconti migliori che abbiamo avuto da questo punto di vista è stato l’entusiasmo che c’è intorno al Tour of the Alps proprio da queste zone.
Oggi sembra che se non si è nel World Tour non si riesca a fare del grande ciclismo. Avete dimostrato che non è vero. Tuttavia c’è l’idea di diventare una corsa WorldTour in futuro?
Prima dell’ultima tappa ne ho parlato con il presidente di giuria. Ci ha riconosciuto grandi meriti. Allora io gli ho raccontato che non più tardi di tre settimane fa, l’Uci ci aveva inviato un form da completare che riguardava le manifestazioni che volessero candidarsi per il WorldTour.
Quindi è un obiettivo?
Può essere un obiettivo. Però, proporre a un’organizzazione di candidarsi al WorldTour senza sapere preventivamente cosa questo comporti non è una strada giusta. E non parlo degli aspetti economici. In quel caso è sempre tutto molto chiaro. Quello che non è chiaro è: se io mi candido a WorldTour e tu, organizzazione internazionale, accetti la mia candidatura dove finisco io in calendario?
Obiezione legittima…
Questo è il punto. Noi abbiamo una collocazione nella quale la nostra corsa sta bene, ha una sua identità. Perché non ci dimentichiamo che siamo già tra due gare WorldTour e in mezzo ce n’è un’altra, la Freccia Vallone. Se questo è lo schema e noi dovessimo entrare nel World Tour, per noi sarebbe un problema. E’ insensato fare una un’eventuale procedura per il WorldTour senza sapere questo. Il problema reale quindi è il calendario. Una gara come il Tour of the Alps è una gara importante, perché ha saputo guadagnarsi un certo tipo di considerazione.
Una WorldTour mascherata, tanto più visto il parterre di quest’anno…
È evidente che questa è una gara WorldTour sotto mentite spoglie. E aggiungo, senza timore di essere smentito: è migliore di numerose gare WorldTour. Non è solo una questione di status, è una questione di costi-benefici. Fondamentalmente qual è il nostro patrimonio? La tradizione, una posizione in un calendario che non è felicissima al 100% ma è comunque buona, la credibilità, la qualità e il gradimento da parte dei corridori e delle squadre.
Cioè?
Guardate anche sui social quello che scrivono i corridori. Ciò che dicono nelle interviste. Sono apprezzamenti spontanei. Questo vuol dire che abbiamo un format che funziona.
C’è qualcosa ìda migliorare o che vorresti fosse andato diversamente?
Questa edizione è andata molto bene. Avrei voluto avere ancora più campioni alla partenza. Ma lo spostamento della Roubaix ha inciso. Uno dice: che c’entra la Roubaix con noi. Invece c’entra eccome. Lo staff delle squadre che fa tutto il primo blocco di classiche ha prolungato il suo impegno di una settimana e questo ha complicato la loro organizzazione. Il tutto con il Giro d’Italia dove servono doppi mezzi perché non ci sono i tempi tecnici per portarli dall’Ungheria alla Sicilia. Le squadre pertanto sono sotto pressione e tutto questo incastro non ci ha favorito.
Una cosa molto positiva a nostro avviso sono stati i percorsi. Disegnati per lo spettacolo. Per assurdo la tappa che sembrava dovesse essere più scoppiettante, quella con la salita dura del Furcia, è stata la più “banale”…
Diciamo di sì, ma diciamo anche che quella del Furcia sarebbe stata una tappa ancora più vivace se ci fossero state 2 o 3 squadre nel comandare la corsa e non una (la Bahrain Victorious, ndr). Fortunatamente viviamo una stagione di grandi e nuovi campioni che sono totalmente in linea con l’idea di attaccare da lontano, di dare spettacolo, che hanno gli organizzatori. Mi permetto di dire che noi, forse, ci siamo arrivati un po’ prima di altri, intuendo che se i corridori non fanno in pieno quello che un organizzatore desidera, cioè una corsa vivace, è perché le scelte tecniche forse non sono ideali.
Ti riferisci ai percorsi più corti, in particolare?
Siamo sicuri che accorciare i percorsi sia una scelta giusta. Anche perché bisogna considerare il fatto che corriamo in giorni feriali e non ti puoi permettere una corsa eccessivamente prolungata: troppi disagi. I 140, 150 o i 120 chilometri, sono una proposta che i corridori apprezzano. Gli piace, vanno a tutta, non hanno troppo stress prima e dopo la corsa. Avrete notato poi che cerchiamo di rendere la partenza e l’arrivo nello stesso luogo, riducendo i trasferimenti. Arensman prima della partenza di Lienz è arrivato al via con un sorriso straordinario, nonostante la pioggia. E nei post, la DSM diceva che questa è la loro corsa preferita. Matteo Tosatto mi ha raccontato che in Ineos-Grenadiers quando all’inizio della stagione fanno il programma c’è la ressa per venire qua, perché piace ai corridori e al personale.
In effetti si è percepito un bel clima…
Un clima che cerchiamo di trasmettere attraverso uno staff che nel corso degli anni si è evoluto, ringiovanito e con una presenza femminile più marcata. Alla sera negli alberghi, noto il piacere che hanno tutte queste persone di esserci. Ed è un’organizzazione mista, che si avvale di professionisti e volontari. E i volontari non sono qui perché “danno una mano”. No, ognuno ha il suo ruolo. Dicono che io sia una persona esigente, probabilmente è vero. Però, al di là dell’essere esigente, di cercare sempre il meglio, c’è il fatto che tu hai bisogno di persone che devi distribuire in vari incarichi e non li puoi assegnare “tanto per…”. Il ciclismo è uno sport organizzativamente difficile e richiede competenze specifiche.
In virtù di tutto ciò pensate anche ad altri progetti simili oltre al Tour of the Alps?
Non lo so. Con uno staff diverso che comprendeva alcune delle persone di cui ho fiducia, l’anno scorso abbiamo fatto il campionato europeo a Trento ed è stata un’esperienza bellissima. Però il soggetto organizzativo non era lo stesso. In Italia c’è un organizzatore molto importante che è Rcs Sport. Credo che ci sarebbe bisogno di altri player altrettanto qualificati, ovviamente non della stessa dimensione. Organizzatori che però facciano qualità. A volte vedo delle gare che sono “trascinate”, cioè fatte con coraggio con i mezzi che ci sono. E non sono sicuro che questo sia funzionale all’obiettivo, perché oggi come oggi una località che ti ospita, un’azienda che ti finanzia, vuole qualità.
Qualità non solo tecnica, ma generale?
Il ciclismo deve essere un evento, non una corsa fine a se stessa. La corsa è un elemento dell’evento. Pensare che fatta la corsa è risolto tutto, non corrisponde al mio modo di pensare.
Ci ha incuriosito la presenza di due squadre: la Kern Pharma e la Uno-X. Per i norvegesi magari ci sono anche motivazioni turistiche visto che amano le nostre montagne. Ma gli spagnoli?
La prima scelta è chiaramente razionale. Dalla tarda estate chiediamo alle squadre di dichiarare il loro interesse verso il Tour of the Alps. Dopodiché valutiamo quali coinvolgere. La squadra norvegese è già venuta l’anno scorso e gode di una certa considerazione. Quest’anno non è stata brillantissima, ma ha avuto i suoi malati e poi era stata invitata anche nelle classiche del Nord.
E la Kern Pharma?
E’ una squadra più piccola, ma da seguire. Anche perché se non li vedi, non ti rendi conto a che punto sono. Poi verifichi anche che tipo di rendimento producono. E in base a questo decidi se invitarli l’anno dopo. Sono anche dei test, se vogliamo…
Quasi niente continental: perché?
C’è un forte sbarramento rispetto alle continental. Nessuna preclusione, ma non possiamo permetterci una presenza di quel livello. Francamente non lo troverei così interessante per la corsa. E avevamo il posto per farle venire visto che siamo partiti con 18 squadre.
Dici che il gap è troppo grande?
C’è già un gap piuttosto forte tra WorldTour e Professional, figuariamoci tra WorldTour e continental. Significa portarsi dietro una presenza che crea problemi: non sono in grado di competere, allungano la corsa. E secondo me non serve neanche a loro perché fanno brutta figura. Non è un voler rinunciare a dare delle opportunità a squadre più piccole, ma semplicemente non vedo questa commistione che noto in alcune gare, in cui non si capisce se sono professionisti o under 23. Ben vengano semmai i giovani delle squadre development inseriti nella squadra maggiore.