Il ciclismo è una casa solida e antica, ma antica veramente. Per decenni l’età ne è stata il punto di forza, finché l’UCI decise che per venderlo meglio in tutto il mondo fosse necessario introdurre nuove corse, nuove formule, nuove ricette. La mondializzazione, un bel modo sicuramente per diffondere lo sport e al contempo drenare risorse in giro per il mondo. Non l’hanno chiesto i corridori di gareggiare nel deserto a 50 gradi: questo Lappartient non lo dice.
Il ciclismo dei nostri nonni vedeva costantemente i più forti sfidarsi nelle gare più importanti, soprattutto perché le gare erano di meno e veniva quindi naturale trovarli tutti insieme dalla Sanremo al Lombardia.
Quando l’UCI si è resa conto che il calendario mondializzato aveva determinato lo sbriciolamento del gruppo, ha inventato il ProTour poi diventato WorldTour. L’idea in sé sarebbe anche giusta: i grandi corridori nelle grandi corse. Invece è tutto mischiato e quella che poteva essere una riforma intelligente si è imbastardita, al punto che la stessa UCI sta pensando a un nuovo calendario e nuove alchimie che mineranno ancora più dalle fondamenta l’antica casa da cui siamo partiti. In un’intervista rilasciata al belga Het Nieuwsblad, il presidente Lappartient ha enunciato alcuni dei punti su cui sta ragionando e gli scenari che non ha ancora tracciato (pur lasciandoli intuire) hanno lasciato aperti svariati interrogativi.


Calendario da cambiare: sì o no?
Primo obiettivo: ridurre le sovrapposizioni del calendario. Il UAE Tour si conclude nel weekend della Omloop Het Nieuwsblad: entrambe gare WorldTour. La Parigi-Nizza e la Tirreno-Adriatico spaccano a metà il gruppo. Lappartient dice tutto e l’esatto contrario.
«Vogliamo evitare certe situazioni di calendario – dice – come nel ciclismo femminile, nato con la determinazione che non ci fossero concomitanze. Abbiamo avuto molte opportunità per deviare da questa idea, le richieste di vari organizzatori non sono mai mancate, ma siamo sempre rimasti fedeli al nostro principio. Nell’interesse delle squadre, dei telespettatori e della chiarezza. Capisco anche io che il ciclismo maschile abbia alle spalle 130 anni di storia e non sia facile cambiare le cose. Parlerei di evoluzione più che di rivoluzione.
«Sono il primo a rendersi conto che il Tour de France si correrà sempre a luglio. Proprio come le classiche si svolgeranno in primavera o in autunno. O che il Giro delle Fiandre e la Parigi-Roubaix si correranno sempre una accanto all’altra, semplicemente perché è meglio per i corridori. Nel 2020 però a causa del Covid abbiamo fatto il Tour a settembre e il Fiandre a ottobre e furono entrambi sensazionali. Non sto dicendo di rifarlo, ma a volte l’impossibile si rivela possibile».


Slot geografici e temporali
Convince di più, se non altro a tutela dell’equilibrio degli atleti, il discorso sulla razionalizzazione dei viaggi, nel momento in cui lo sport spinge verso la sostenibilità. Non convince invece il punto sulle destinazioni troppo calde: chi ha deciso che si debba correre nel deserto?
«Dobbiamo tenere maggiormente in considerazione il cambiamento climatico – ha detto Lappartient – mentre oggi a volte andiamo con il gruppo in Paesi in cui le temperature sono alle stelle. E’ saggio? Perché non prevedere date diverse? Inoltre dobbiamo ridurre la nostra impronta ecologica. Viviamo in un mondo nuovo. Il ciclismo non dovrebbe essere cieco di fronte a questo. Il gruppo si sposta dall’Europa a un altro continente, torna in Europa e poi passa nuovamente un altro continente.
«Ci siamo impegnati a ridurre della metà la nostra impronta di carbonio entro il 2030: questo è essenziale per i nostri sponsor. Il nostro impegno è trovare degli slot in cui si gareggia nella stessa regione per un periodo più lungo. Come si fa in Belgio durante le classiche. Per due o tre settimane l’intero gruppo è nella stessa regione. La maggior parte delle squadre alloggia addirittura nello stesso hotel e da lì raggiunge le gare. Dovrebbe essere sempre così».


Allargarsi ancora
E’ giusto che i corridori abbiano un periodo di stacco invernale, dice Lappartient. Semmai, aggiunge, non è normale che a febbraio ci siano soltanto due gare WorldTour. Ci sarebbe margine per inserirne altre, andandole a cercare in luoghi inesplorati, facendo così decadere nuovamente l’esigenza di razionalizzare il quadro.
«Perché non pianificare altre gare a febbraio? Penso anche alle parti del mondo in cui attualmente non siamo forti. Oggi non abbiamo corse WorldTour in Sud America o Africa (in apertura un’immagine del Tour of Rwanda, ndr). Cosa succederà l’anno prossimo dopo il mondiale del Rwanda? Se cambiamo ed espandiamo il circuito del World Tour, non sarà per essere ancora più forti in Francia, Belgio o Italia. Non credo in uno sport che si svolge in due o tre Paesi. Oggi bisogna avere una visione globale. Perché non organizzare uno “slot” in Sud America a febbraio? Ci sono già gare in Colombia e il ciclismo è estremamente popolare. Così come c’è ancora spazio in Asia o addirittura in Europa. Non credo che questo danneggerà il ciclismo più tradizionale. Chiamatemi vecchio stile, ma sono convinto che il Fiandre, la Roubaix, il Lombardia e la Sanremo saranno ancora le gare di punta tra cinquant’anni. Sono la leggenda di questo sport».
In che misura il bisogno di risorse condiziona le scelte tecniche? Perché alla fine la sensazione è proprio questa: per tenere in piedi il castello e arricchirlo di nuove ali, capito che l’Europa non ha più molte risorse da dare, si va a cercarle nei Paesi in via di sviluppo. E non è un gran bel ragionare. Il ciclismo ha bisogno di essere aggiornato, non c’è dubbio, ma non destituendo di solidità le sue fondamenta. Altrimenti la casa, quella vecchia casa dai muri di pietra, viene giù. E non siamo certi che la nuova starebbe in piedi solo con i soldi, ma senza la passione.