«Quando mi dicono che in Olanda ci sono più biciclette che in Belgio, rispondo che è vero. In Olanda hanno la cultura della bicicletta, da noi invece c’è la cultura del ciclismo».
Le parole sentite il 6 gennaio in Belgio continuano a risuonare, come pure i boati di pubblico nei cross del weekend. Chi ha commentato le immagini e gli articoli sui vari social ha scritto che certe scene si possono vedere soltanto lassù. Non è vero, accade anche da noi: magari non nel cross, ma certo su strada. La foto di apertura viene dal Giro del 2018 a Catania, l’ha scattata Dario Belingheri e ha pure vinto un premio. La gente ce l’abbiamo, stiamo perdendo la cultura del ciclismo. Perché?
La cultura del ciclismo
Cultura è una parola importante. Magari quel tale l’ha utilizzata a vanvera oppure con la consapevolezza di ciò che stava dicendo.
«Cultura – dice la Treccani – è l’insieme delle cognizioni intellettuali che una persona ha acquisito attraverso lo studio e l’esperienza, rielaborandole peraltro con un personale e profondo ripensamento così da convertire le nozioni da semplice erudizione in elemento costitutivo della sua personalità morale, della sua spiritualità e del suo gusto estetico, e, in breve, nella consapevolezza di sé e del proprio mondo».
Se associamo la definizione al ciclismo e consideriamo che in Belgio è materia di studio nelle scuole, presenza fissa nei media, stile di vita quotidiana e abitudine consolidata in tante case, si capisce che forse l’uso del termine non sia venuto a sproposito. Stando così le cose, si capisce anche il motivo per cui delle grandi aziende trovino interesse nell’investire in questo sport.
«Siamo due grandi compagnie del Belgio – ha detto Cindy Van Moorleghem Brand & Marketing Director di Quick-Step, parlando dell’azienda per cui lavora e di Soudal – entrambe attive sul mercato internazionale. Abbiamo dei valori in comune, che si chiamano passione, sogno e orgoglio».
Bambini e futuro
La stessa cosa succede in Francia. Il grande lavoro svolto da Aso nel diffondere il Tour e la sua immagine, unito all’appoggio della politica e al favore dei media fa sì che la storia del ciclismo e il suo presente passino attraverso le generazioni. Ne consegue che anche in Francia dei veri colossi si sono avvicinati alle squadre, modellando campagne di marketing su uno sport che viene ritenuto un grande veicolo promozionale.
Il racconto fatto da Consonni sulla folla di pubblico nelle varie prove della Coupe de France conferma che non è solo il Tour, ma il ciclismo stesso ad essere trainante, sia pure in un Paese in cui calcio e rugby la fanno da padroni.
Spesso per capire quanto il ciclismo sia radicato nella società, basta guardarsi intorno. La presenza dei bambini alle corse è la discriminante più attendibile: se ci sono loro, vuol dire che si tratta di un affare di famiglia. E allora, come ha detto Lefevere alla presentazione della sua squadra, è lecito pensare che i bambini di oggi saranno i tifosi di domani.
L’eccezione italiana
Che cosa impedisce che la stessa cosa accada anche in Italia? Siamo tifosi, appassionati e praticanti. Abbiamo un seguito fantastico, un territorio disegnato per gli sport outdoor, ma la cultura del ciclismo si va spegnendo perché manca la rete che ne favorisca il passaggio. Resta legata ai ricordi dei più attempati, ma raggiunge a fatica i più giovani. Se ci fosse stata ancora la sensibilità degli anni Ottanta, un campione come Nibali sarebbe diventato trascinatore anche malgrado il suo carattere schivo. Invece lo abbiamo lasciato passare senza renderci conto che sia stato più popolare in Francia che in Italia.
Per forza! Chi organizza le corse si limita, nella maggioranza dei casi, a raccogliere assegni, tassare gli sponsor altrui, montare palchi e sparire poche ore dopo. Gli esponenti della politica nazionale si tengono alla larga, casomai dovesse nuocere alla loro immagine farsi vedere al via di una corsa. I media, quelli importanti che dettano la linea, si sono inginocchiati davanti al calcio, ritenendolo l’unico tema che richiami il pubblico. Di conseguenza gli sponsor stanno alla larga. Quelli capaci di coniugare passione, sogno e orgoglio sono usciti anni fa e non tornano indietro. Ci sono stati anche gli anni in cui la sponsorizzazione era il modo migliore per giocare con le fatture, ma questa è un’altra storia, tipica tuttavia del nostro malcostume. E certo non aveva a che vedere con passioni, sogni e orgoglio.
L’invasione francese
Il perché tutto questo accada resta la chiave decisiva. Il Covid ha favorito il rinascere (forse) della cultura della bicicletta, ma anche questa deve confrontarsi ogni giorno con la non-cultura di chi utilizza le strade senza rispetto per gli utenti più deboli. E non saranno le distanze imposte o le targhe alle bici a rendere migliore la situazione. Forse davvero l’unica soluzione è che ci invadano. Che arrivi dalla Francia lo squalo del Tour e metta un piedino, magari cominciando dal Giro Donne, e poi si espanda. Lo faranno prevalentemente per denaro, ma sanno anche che il gioco è tanto più redditizio se poggia sulla cultura popolare. Sempre a quella si torna e qui il ciclismo ha fatto la storia. Dobbiamo rimboccarci le maniche affinché tutti lo sappiano.