Nei giorni scorsi Rio de Janeiro ha ospitato i mondiali di ciclismo paralimpico su pista e la nazionale italiana è tornata a casa con un oro, un argento e 3 bronzi (nella foto di apertura della Fci). Un bottino sontuoso, considerando che la disciplina era sempre stata l’anello debole del movimento, pochissimo praticata e pressoché senza squilli. Qualcosa si era già visto lo scorso anno a Glasgow, ma si gareggiava in un contesto particolare, con tutte le discipline su due ruote concentrate in una sorta di “Olimpiade interna”. Questa volta no, tutti i fari dell’attenzione erano sul velodromo e sugli atleti paralimpici.
Tre anni per costruire una disciplina
Inoltre, dato da non sottovalutare, fino a pochissimi anni fa in Italia il ciclismo paralimpico era sinonimo di handbike e nient’altro. Tanti allori in quello specifico settore, niente nell’altro al punto che tre anni fa, ai Giochi Olimpici di Tokyo, non eravamo neanche presenti (e nel mondo paralimpico il ciclismo su pista è disciplina trainante, quasi al livello di atletica e nuoto).
Per questo i risultati ottenuti in Brasile hanno un peso enorme e Silvano Perusini, il cittì del settore ci tiene che venga messo in rilievo: «Non guardo solo al medagliere, ma anche alle prestazioni generali, ho visto tempi davvero di rilevanza internazionale. Poi è arrivato l’oro e non in una specialità qualsiasi, ma nel team sprint con i tandem, battendo la Gran Bretagna che di questo sport è un po’ il faro per tutti».
Cretti e il tandem già a Parigi
Non era, quello di Rio, un mondiale normale, perché arriva a pochissimi mesi dai Giochi Paralimpici di Parigi e quindi non solo dava punti fondamentali per le qualificazioni, ma era anche uno specchio di quel che ci poteremo aspettare.
«Ci presenteremo a Parigi non per fare comparsa. Intanto ci sarà Claudia Cretti che a Rio ha preso tre medaglie pur essendo lontana dalla miglior condizione per alcuni problemi e questo dà a lei e a noi molta speranza. Poi avremo Bernard e Plebani nel tandem che a Rio hanno preso un bronzo clamoroso. Anche perché è una coppia costituita da pochissimo. Non dimentichiamo che Plebani fino a poco più di un anno fa era nel gruppo di Villa, ha dovuto aspettare che decorressero i 12 mesi richiesti dall’Uci per il passaggio dal settore olimpico a quello paralimpico».
Tokyo 2020 senza azzurri al velodromo
E’ qualcosa per certi versi clamoroso, perché tre anni fa la nostra assenza nel velodromo, in un’edizione paralimpica considerata la migliore di sempre, fece comunque scalpore: «Siamo partiti da zero, non posso negarlo. Nel precedente quadriennio non c’era alcuna attività nei velodromi. Non c’era organico, non avevo niente in mano. Devo dire grazie alla Federazione e al Cip che si sono resi conto di come quell’assenza fosse una macchia nell’immagine dello sport italiano e mi hanno messo nelle migliori condizioni per lavorare. Negli ultimi 18 mesi si è investito molto, considerando anche che per colpa del Covid abbiamo avuto un anno in meno per lavorare. Ma non dobbiamo illuderci: anche se a Parigi ci saremo, abbiamo un lungo cammino da compiere.
Manca ancora un calendario
«Ora abbiamo un velodromo per lavorare, materiali, anche un budget seppur non cospicuo. Ma siamo anni luce lontani dalle altre Nazioni. Ai mondiali abbiamo portato gente che era alle prime armi in assoluto, non solo in ambito internazionale, ma proprio immersa in un ambiente completamente sconosciuto. E ci confrontiamo con nazioni dove c’è una tradizione pluridecennale. Per questo i nostri risultati sono clamorosi».
Perusini, pur facendo leva sull’entusiasmo e sulle speranze per Parigi, non dimentica dove si deve lavorare: «E’ fondamentale che si costruisca un calendario nazionale di gare. Noi non l’abbiamo e questa è una grave lacuna. C’è gente che non ha mai fatto gare di gruppo, senza alcuna esperienza, facendo leva solo sulla propria preparazione che in contesti del genere risulta quasi asettica. Da noi deve crescere la cultura paralimpica, abbiamo bisogno dell’impegno delle società, anche, anzi soprattutto nell’allestimento di eventi. Costruiamo una strada che porta ai grandi eventi. Allora le imprese di Cretti o Bernard-Plebani non saranno più isolate».
Il cammino verso Parigi
Che atmosfera c’era a Rio? «Pubblico ce n’era, ma è stato sicuramente molto diverso da quanto avvenuto a Glasgow. Lì avevamo un’attenzione mediatica straordinaria perché eravamo fianco a fianco con i grandi campioni del ciclismo. Questa volta l’impatto è stato più tranquillo».
Ora la mente è proiettata verso Parigi, ma il cammino è ancora lungo: «Abbiamo in programma due prove di Coppa del Mondo, a Maniago e Ostenda, poi verranno stilati i ranking definitivi e sapremo a quanti posti abbiamo diritto per tutto il ciclismo paralimpico. A quel punto con Pierpaolo Addesi che è il cittì della strada faremo le nostre scelte. E’ chiaro però che un podio iridato dà già un posto nella selezione azzurra e mi dispiace che il team sprint non sia fra le specialità previste a Parigi, meritavano quella chance. La Colombo ha appena 19 anni, anche Meroni è giovanissimo e con Bissolati e Ceci hanno subito trovato un connubio importante. Quell’oro è stato un capolavoro ed è lo specchio di dove possiamo arrivare se c’è collaborazione da parte di tutti».
Come a Tokyo, se non di più…
Finora l’Italia del ciclismo paralimpico è stata identificata con l’handbike. In che modo questa, non prevista a Rio, si presenterà al consesso olimpico?
«Dopo Tokyo abbiamo profondamente rivoluzionato la nazionale, immettendo nomi nuovi, molti giovani che hanno fatto esperienza come Pini e Testa già assiso sul massimo gradino del podio mondiale. Tanti elementi sono ancora “grezzi” nel senso che hanno poca esperienza, ma io dico che andremo a Parigi per puntare allo stesso obiettivo di Tokyo ma con la possibilità di fare anche di più».