La storia delle cicliste afghane scappate da Kabul e diventate un’icona dello sport contemporaneo è ormai parte di questo mondo a due ruote. La vicenda di Fariba Hashimi e compagne ha portato alla luce l’attività di Road to Equality, l’associazione creata dall’ex iridata Alessandra Cappellotto che tanto si è adoperata per far uscire le ragazze dal Paese dopo la calata dei talebani. Alla lunga però l’impegno assunto con le afghane rischia di risultare riduttivo, perché Road to Equality è molto altro.
L’associazione rappresenta un impegno molto oneroso, se aggiunto a quello del Cpa Women, anche perché a occuparsene sono meno di 10 persone. Le giornate di Alessandra sono estremamente impegnative, dalla mattina alla sera è un susseguirsi di telefonate, riunioni, decisioni da prendere e trovare qualche minuto per raccontare e raccontarsi non è semplice.
«Abbiamo iniziato nel 2021 – spiega – ma sembra davvero un secolo fa… Nel 2017 avevo fondato il Cpa femminile, il sindacato delle cicliste, ma mi ero accorta che quell’impegno, dedicato solo al ciclismo di vertice, non copriva le esigenze reali di questo movimento. Il ciclismo femminile è un argomento complesso…».
In che misura?
Innanzitutto dobbiamo considerare che si parla spesso di ciclismo di professioniste ma non è così. Sono pochi i Paesi che riconoscono il professionismo per il settore femminile, in molti casi (anche da noi) è più un ibrido e questo crea problemi. Occupandosi però di ciclismo di vertice eravamo completamente tagliati fuori da quello che è il vero tema che mi stava a cuore: aiutare l’evoluzione del ciclismo femminile intervenendo nei Paesi in via di sviluppo e lo possiamo fare attraverso piccole cose, ma che risultano fondamentali.
Entrando nello specifico, che cosa fate?
Cerchiamo di dare un aiuto come possiamo. A noi si rivolgono ragazze in cerca di una squadra, organizzatori che vogliono un sostegno attraverso sponsor e premi, squadre che cercano un aiuto economico. Noi mettiamo a disposizione le nostre conoscenze, diciamo che facciamo da tramite perché le loro richieste possano essere esaudite. Queste richieste ci arrivano un po’ da ogni parte del mondo, chiaramente da quei Paesi dove il ciclismo femminile deve ancora evolversi: Africa, Asia, Sud America e così via.
La storia delle cicliste afghane come nacque?
Il contatto fu con il presidente della federazione afghana che si rivolse a noi per un aiuto nell’organizzazione di una gara femminile nella capitale Kabul. Grazie al contributo materiale ma soprattutto alla sensibilità della Rudy Project, inviammo caschi, occhiali e tanto materiale da dare in premio alle ragazze. Da lì nacque un contatto che, nei giorni più difficili, fu essenziale.
Quanto conta, nel vostro lavoro, il tuo nome costruito negli anni di militanza nel ciclismo mondiale?
Tanto, non posso negarlo, perché si sono creati legami fondamentali. Il nostro lavoro si basa molto sui rapporti umani. Quando prendiamo in carico un caso, mettiamo mano al telefono o al computer e iniziamo a verificare chi potrebbe darci una mano, risolvere quel dato problema. Spiego la situazione e cerco insieme al referente la soluzione migliore. Non posso negare che a tante richieste non possiamo dare risposta: molte ragazze vogliono che troviamo loro un team, noi possiamo fornire qualche contatto, ma dovranno poi essere loro a guadagnarselo. Noi possiamo intervenire nell’ottenimento dei visti necessari per trasferirsi nel Paese e posso assicurare che non è cosa da poco.
Parlavi della federazione afghana: siete spesso contattati dalle federazioni di altri Paesi?
Sì e questo rientra specificamente nei nostri compiti statutari. A noi interessa aiutare e incrementare l’attività nei Paesi dove non c’è parità di genere, dove c’è voglia di allestire eventi per le donne, che siano gare, training camp, insomma per fare in modo che tramite il ciclismo si possa fare un passo importante nel lungo cammino dell’emancipazione femminile. Nella maggior parte del mondo, l’emancipazione sportiva è ancora una chimera. Mi ricollego ad esempio al racconto di Taaramae dal Rwanda: in quel Paese l’assistenza sanitaria è come quella americana, se hai soldi vieni curato, se vieni investito e non hai un’assicurazione (costosissima tra l’altro) ti lasciano lì. Noi proviamo a dare una mano cercando contatti e sponsor per società.
Curate anche la spedizione di materiale ciclistico?
Certamente e vi racconto un aneddoto al riguardo: lo scorso anno, ai mondiali di Leuven, caricai la macchina come di più non si poteva, con caschi, copertoni (fondamentali, forse l’accessorio più richiesto), abbigliamento e tanto altro. Erano da consegnare ai commissari tecnici di più Paesi, dalla Costa d’Avorio al Rwanda, al Congo… Fu un viaggio difficile, non lo nego. All’arrivo i vari referenti presero quando dovuto e lo caricarono nelle valigie delle atlete e del personale. Avevamo così dato un aiuto in maniera più celere. Se le cose fossero burocraticamente più semplici, si potrebbe fare molto di più per dare una mano.
Nei tuoi contatti hai sempre trovato dall’altra parte mani tese?
Sì, anche perché io sono una persona molto legata alle istituzioni. Credo molto nel valore dell’atleta donna, ma credo anche che la sua valorizzazione debba passare per i canali istituzionali. E la cosa che spesso mi sorprende è trovare, in Paesi dove la parità di genere è di là da venire, uomini a capo di federazioni e di enti che sono molto sensibili verso lo sport femminile, verso quello che facciamo. Credono nelle loro atlete e in quel caso è facile aiutare.