Quando lo rintracciamo, Michele Bartoli sta guidando verso il centro di Lunata con cui collabora. Il toscano sarà al ritiro della Bahrain Victorious a metà dicembre e oggi, dice, andrà a divertirsi con gli allievi che hanno richiesto il suo intervento. «Sono dei test così – mette le mani avanti – niente di serio. Tanto per fargli capire cosa significa fare ciclismo. Io sono uno che con i giovani va volutamente lento».
Lo abbiamo chiamato per riprendere il discorso fatto con Geremia sul dilettantismo italiano com’era e come invece è diventato. E se il tecnico regionale degli juniores veneti ha citato la sua esperienza con corridori come Nibali e Visconti che vincevano contro gli elite nel 2004, a Bartoli chiediamo come andassero le cose fra il 1989 e il 1992, quando il dilettante era lui e otteneva le sue vittorie più belle.
«Quindi Geremia – inizia Bartoli – sostiene che correre con i più grandi sia una cosa positiva? Sono d’accordo anch’io, assolutamente. L’impegno fisico rimane quello. I tuoi 3-5-12 minuti più o meno rimangono gli stessi come picchi di potenza, non è che correre con gli under 23 o gli elite cambi qualcosa. Cambia invece l’impegno mentale, il dover studiare qualcosa per sopperire alla maggior forza degli altri. E quindi impari prima e di più. L’ho sempre detto, sotto questo aspetto chiudere le categorie è stata una retrocessione. Anche perché poi fanno ricorso ai vari escamotage, con gli juniores che passano professionisti a 18 anni. E a quel punto dove finiscono le tutele dagli sforzi eccessivi?».
Saresti per ripristinare una categoria di elite e under 23 in cui salga il tasso tecnico oppure per cancellare anche gli under 23?
Quella dei dilettanti, chiamiamola così, è una categoria che è stata svuotata. Effettivamente si fa molta più esperienza facendo corse a tappe in giro per l’Europa. E’ una categoria molto sottostimata perché gli juniores buoni vanno nei devo team (in apertura Davide Stella della Gottardo Giochi Caneva, iridato della pista juniores, che passa nel team di sviluppo della UAE Emirates. Immagine photors.it, ndr). Altri passano professionisti e negli under 23 rimangono buoni atleti, ma con un interesse inferiore. Qualcosa deve essere fatto, non si può far morire una categoria intera in cui comunque corrono tanti atleti.
Secondo te perché si tende ad evitarla?
Io credo che passino così presto per ambizione, senza neanche calcolare troppo vantaggi e svantaggi. Passo professionista, punto e basta. Poi dietro ci sono sviluppi tecnici e altre considerazioni, però il primo pensiero è quello: passare. Capitano anche a me degli juniores che vorrebbero farlo a tutti i costi. Ma dove vogliono andare? Non è quello l’obiettivo. L’obiettivo è trovare una situazione in cui puoi crescere tranquillo, con gente che ti insegni il mestiere. Se passi tanto per passare, che ne sai dell’ambiente in cui ti ritrovi?
Tu sei passato a 22 anni e da dilettante correvi in mezzo a gente ben più grande: secondo te è un modello riproponibile oggi?
Correvo ad esempio contro Walter Brugna, uno dei primi che era rientrato dai professionisti. Le prime due o tre gare feci secondo dietro Alessandro Manzi, che aveva quasi 10 anni più di me. Era faticoso mentalmente perché ti aspettavi sempre un loro attacco e sapevi che quando andavano, ti lasciavano lì. E allora dovevi studiarti qualcosa per stargli dietro. Mi ricordo una corsa ad Arezzo, in un paese di cui non ricordo il nome perché da quelle parti mi sembrano tutti uguali. C’era proprio Brugna e prima dell’arrivo uno strappo ripido.
Come andò a finire?
Provai in tutti i modi ad anticiparlo, tanto sapevo che se arrivavo lì con lui, mi staccava. Ero di primo o secondo anno. Le provai tutte, cercai l’accordo con gli altri del gruppetto, per andare via una volta ciascuno. I classici ragionamenti che fai quando ti senti inferiore e che non avrei fatto se avessi corso negli under 23. Perché magari fra i coetanei ero superiore e mi bastava arrivare lì, poi sarei partito e li avrei staccati. E comunque quel giorno Brugna ci fregò lo stesso. Non si riuscì a staccarlo, si prese lo strappo e lui se ne andò e vinse. Sono le dinamiche che sei costretto a mettere in gioco solo quando sei al limite e devi trovare il modo per importi.
Pensi che si debba riorganizzare il ciclismo di quelle età?
La situazione non va bene. Tutti parlano di sforzi troppo grossi e che si è fatto così per salvaguardare i nostri atleti. Ma non sono gli sforzi fisici a danneggiarli, sono gli sforzi mentali. Uno sforzo fisico a 17, 18, 19 anni lo recuperi mangiando e andando a letto: la mattina dopo sei già pronto. Sono le scorie mentali che ti rimangono. Il problema è mandare una squadra di juniores a fare un’ora e mezzo con una salita al massimo un’ora e mezza prima del via della gara.
Gli eccessi gratuiti?
E’ il problema del nostro ciclismo e crea talmente tante scorie che ti rimangono nel cervello e poi pian piano rigetti la fatica. Non ce la fai più, anche involontariamente, soprattutto involontariamente. Non è che lo decidi di non sopportare la fatica, ti succede e la chiudi lì. A meno che non fai certi sforzi da giovanissimo, esordiente o allievo, la fatica non ha mai fatto male a nessuno. Sapete quali sono le componenti dell’allenamento?
Quali?
Le componenti per far crescere gli atleti sono l’allenamento, la vita privata e le gratificazioni. Oggi invece esistono solo gli obiettivi agonistici, tutto il resto non conta più. La vita privata non conta più e le gratificazioni della vita di tutti i giorni sono proibite. Magari inventarono l’under 23 per contrastare altri fenomeni, ma ora che è tutto cambiato fa più danni che vantaggi. Hanno fatto bene anche a liberalizzare l’uso dei rapporti fra gli juniores, ma si deve trovare il modo perché il dilettantismo torni a produrre buoni corridori come un tempo, quando non c’erano alternative.