«Grazie a Gino mi è venuta voglia di correre in bicicletta. Alfredo è stato un amico vero oltre a un commissario tecnico straordinario». I ricordi di Roberto Poggiali – inossidabile ottantenne fiorentino, già campione italiano dilettanti nel 1962, poi corridore professionista e in seguito direttore sportivo – fanno rivivere due miti del ciclismo mondiale, ai quali è dedicata la 12a tappa del Giro, la Siena-Bagno di Romagna. La corsa transiterà nei paesi natali di Bartali e Martini, Ponte a Ema e Sesto Fiorentino.
«Vivevo sulle rive dell’Arno – ricorda Poggiali – in una zona con diversi distributori di benzina: uno di questi era a meno di 100 metri da casa mia. Un ragazzo di una decina d’anni più grande di me da bambino si era ammalato di poliomielite, aveva braccia fortissime, ma camminava male. Nel pomeriggio, finita la scuola, andavo spesso ad aiutarlo. Da lì passavano anche molti ciclisti degli anni Cinquanta, da Gastone Nencini a Guido Boni a Mario Baroni, e anche Gino Bartali. Sempre abbronzati, atletici, li ho conosciuti in quelle circostanze e così mi venne voglia di andare in bicicletta».
Tutto da rifare
E’ un fiume in piena, Poggiali: il segreto della sua memoria di ferro lo deve molto probabilmente alla sua passione per la bicicletta, che coltiva ancora oggi.
«Dopo 4-5 anni, quando da dilettante vincevo anche belle corse internazionali – prosegue – Bartali cominciò a seguirmi. Eravamo già negli anni Sessanta e lui doveva fare la squadra della San Pellegrino con Coppi: mi venne a vedere in tre o quattro occasioni».
I rapporti con Ginettaccio, però, si intensificarono al di fuori delle corse: «Ci incontravamo spesso alle serate e agli eventi legati al ciclismo (lui era sempre in mezzo) e il nostro rapporto si faceva sempre più stretto. Era spesso critico nei confronti del mondo del ciclismo, voleva alleviare le sofferenze dei corridori e accoglieva con favore le evoluzioni tecniche che stavano trasformando la bicicletta». Burbero, apparentemente duro, un campione nello sport e nella vita, Bartali è stato per decenni un simbolo di passione, onestà, dedizione, ben oltre il termine della sua carriera.
La scuola di Masi
Poggiali, a questo punto della chiacchierata, apre una finestra sul mondo della tecnologia al servizio del professionismo: «Gino Bartali si affidava a buoni maestri, come Gino Cinelli. I suoi telai, avveniristici per l’epoca, erano concepiti per aumentare la velocità e diminuire la fatica. Un altro innovatore era Faliero Masi, che con la sua piccola azienda artigianale costruiva una bicicletta al giorno». Un perfezionista, Masi, che studiava l’angolo più efficace per aumentare la forza propulsiva della pedalata: «Ma ti spiegava anche il perché: “Quando il contadino pigia il piede sulla zappa, non lo pigia mai in verticale, ma lo fa in modo tale che la zappa entri in obliquo nel terreno e allora bisogna pedalare in questa maniera”, diceva. Bartali e io, in quei momenti, eravamo tutt’orecchi».
Papa Alfredo
Il ricordo di Martini, che quest’anno avrebbe compiuto 100 anni, è più vivo e personale. L’incipit dice tutto: «Alfredo è stato un uomo che, se avesse fatto la carriera da ecclesiastico, sarebbe diventato Papa. Sapeva stare in tutti gli ambienti e nello sport è sempre riuscito a mettere le cose al posto giusto, nel momento giusto». Per Poggiali era impossibile non andarci d’accordo: «Umano, riusciva sempre a pianificare tutto e si assumeva sempre le sue responsabilità, non scaricando mai le colpe sui corridori».
Un uomo retto
Roberto ha conosciuto bene Martini dal punto di vista professionale: «Oltre a convocarmi in alcuni campionati mondiali, nel 1973 è stato il mio tecnico alla Sammontana».
Un aneddoto privato, però, riassume con efficacia il rapporto tra i due toscani: «Un’estate eravamo al mare insieme – ricorda Poggiali – nello stesso stabilimento balneare. Andavo in macchina con lui, guidavo io: era il periodo delle prove per il mondiale. Bastavano poche parole per dirci tutto. Quando correvo bene, entrava lui: “Oh, oggi mi sei piaciuto Robertino”. Se la domenica successiva andavo più piano: “Eh, oggi saresti fuori”. Una volta ero dentro, una volta ero fuori. E poi si arrivò alla corsa decisiva, la sbagliai, non arrivai tra i primi e dunque quell’anno non mi convocò».
La scena successiva il mattino dopo, sotto l’ombrellone. Inizia Poggiali, risponde Martini.
«Elda dov’è?», era la moglie di Martini.
«Elda non c’è, è rimasta a casa».
«E perché?».
«Perché si vergogna, per l’amicizia che abbiamo. Mi ha fatto una parte perché ti ho lasciato fuori».
«Come? Posso andare un attimo a casa tua?».
Poggiali andò da Elda per chiarire e ricomporre l’amicizia scalfita da questioni professionali: «“Lui ha fatto la cosa giusta – le dissi – avresti dovuto vergognarti se mi avesse convocato senza che me lo fossi meritato. Dovresti essere orgogliosa di quello che ha fatto”. Lei si sciolse e ci abbracciammo».