Tra i 58 debuttanti del Giro d’Italia di quest’anno c’era anche Andrea Pasqualon. Non solo, ma lui era anche il più esperto di questi con i suoi 33 anni e 127 giorni al via da Torino. Velocista atipico (anche ieri era in fuga verso l’Alpe di Mera), il corridore della Intermarché-Wanty-Gobert ciclisticamente parlando è molto più “straniero” che italiano. O almeno lo era fino a questo Giro.
Andrea, dicevamo debuttante al Giro a 33 anni suonati…
Eh già! Eccomi qui finalmente. Le squadre con cui militavo non mi portavano! Prima con la Wanty non ci invitavano, adesso che siamo WorldTour dobbiamo partecipare ed è abbastanza ovvio che un italiano che corre in un team belga sia portato al Giro.
Tu corri all’estero già da un po’…
Alla Roth, una professional, non si facevano i grandi Giri. E quando ero con Reverberi al Team Colnago probabilmente ero troppo giovane ed inesperto per esserci. Avevo 21 anni. Però prima del Giro ho fatto tre Tour de France.
E infatti proprio di questo volevamo parlare. Eterna domanda: che differenze hai trovato tra le due corse?
Lo stress – risponde secco Pasqualon – al Tour ce n’è tantissimo ed è in tutto. Qui spesso si parte più tranquilli, al Tour per andare in fuga c’è una lotta totale. Anche se devo dire che anche qui al Giro più volte abbiamo lottato tantissimo. Verso Sega di Ala c’è voluta più di un’ora prima che la fuga partisse. E poi cambia il discorso mediatico e della gente. Al Tour quando sali sull’Alpe d’Huez c’è uno scenario unico. Anche se mi rendo conto che qui si risente ancora del Covid e il meteo non ha aiutato. Penso al tappone dolomitico dimezzato, alle presenze limitate sullo Zoncolan.
Cosa ti è piaciuto di questo Giro?
Mi è piaciuto che si vive con un po’ più di relax e questo consente delle tappe con più tattica, al Tour tutto è più calcolato. Qui invece la fuga spesso è arrivata. C’è più spazio per le inventive.
Se dieci anni fa Reverberi (diesse della Colnago) ti avesse fatto esordire, come sarebbe stato il tuo debutto?
Credo un po’ più facile. Dieci anni fa le medie erano un po’ più basse. Adesso sono tutti molto preparati, c’è la massima dedizione anche per le tappe più facili. Tra diesse e corridore c’è un rapporto diverso in gara. Sì, anche all’epoca già c’erano le radioline, ma adesso in ammiraglia c’è una tecnologia pazzesca tra App, software, tablet e di conseguenza la corsa è molto più tenuta sotto controllo. Per altri aspetti sarebbe stato invece per me un Giro più difficile. Adesso ho più esperienza. Vivo la corsa con più tranquillità. E tutto sommato quando decido di andare in fuga ci riesco.
Eri sia in quella di Sega di Ala che in quella verso l’Alpe Mera…
Sì, ma le ultime fughe sono andate via perché alcune squadre volevano così e non perché i corridori siano scappati di forza. Bora-Hansgrohe e Ineos-Grenadiers, ma soprattutto la Bora per difendere la maglia ciclamino di Sagan, hanno fatto il blocco davanti al gruppo. Nella tappa più lunga per esempio ho provato ad andare in fuga, avrò fatto 30 scatti, ma non ci sono riuscito, poi un mio compagno ne ha fatto uno e ci è entrato. Perché? Perché in quel momento hanno fatto il blocco, non facevano passare in testa al gruppo. Ho provato a rientrare dopo ma avevano già 200 metri e non sono più riuscito ad agganciarmi. Se io fossi in maglia ciclamino lotterei fino alla fine, ma evidentemente a loro va bene così.
Però! Dalla tv certe dinamiche si colgono meno, molto meno. Torniamo al tuo debutto. C’era una tappa che avevi cerchiato in rosso?
Sì, quella di Termoli. Lì ho fatto quinto, speravo almeno nel podio. Eravamo abbastanza ad inizio Giro e in molti avevano buone gambe, magari fosse arrivata adesso sarebbe stata diversa.
Perché?
Perché c’era quello strappo di 500 metri prima dell’ultimo chilometro, poi il falsopiano dove rilanciare e infine il rettilineo per fare la volata. Un finale duro come quelli che piacciono a me, perfetto per le mie caratteristiche.
E il gruppetto?
Al Tour si fa molto poco, si forma quando il corridore proprio è sfinito e scivola indietro. Al Giro invece lo chiamano proprio, una cosa che ho scoperto qui. Ci sono quei 30-40 corridori che trovano un accordo e si chiama. Sinceramente non mi piace molto fare gruppetto. Lo faccio se il giorno dopo c’è una tappa particolarmente adatta a me e quindi cerco di risparmiare.
Tra pochi chilometri terminerà questo Giro, cosa ti porti via?
Ho scoperto di avere tanti tifosi per le strade ed è stato particolare. Bello. Sulle strade urlavano il mio nome e cognome in quasi tutte le tappe, al Nord soprattutto, ma anche Sud. Credevo che non mi conoscessero e questo mi rende fiero della mia carriera. Sapete, io non sono un corridore come poteva esserlo Pozzato che era spesso in tv e passava da eroe. Io sono sempre stato poco considerato dalla tv, dai giornalisti e in questo Giro mi sono accorto che non è così. Ho scoperto che molti si ispirano al tipo di corridore che sono. Ho ricevuto molti complimenti nelle interviste della Rai e di Eurosport per quello di positivo che trasmetto.
Alla fine sei un italiano al Giro. Il Tour non ti dà quella empatia o visibilità che può darti l’Italia…
Vero, il Giro è nostro. Gli italiani amano il Giro. Pensavo che il Tour fosse l’olimpo del ciclismo e che fosse così anche per il pubblico italiano. Invece mi sto accorgendo che se dico alla gente che ho fatto tre Tour gliene frega poco. Se invece gli dico che sto correndo il Giro: strabuzzano gli occhi e mi fanno: ma dai!
E quindi “ci” piace questo Giro d’Italia?
A questo punto dico che il Giro mi piace più del Tour e se ne prossimi anni ho la possibilità di scegliere quale fare scelgo il Giro. E poi vuoi mettere come si mangia, come sono belli gli alberghi e l’affetto della gente?