Mondiali di ciclismo su pista, 1983. Nel velodromo di Zurigo tutti aspettano la gara delle gare, il torneo di velocità per assistere alle invenzioni di Koichi Nakano, il giapponese volante dominatore dell’epoca. Pochi si accorgono che intanto, fra i dilettanti, terzo si classifica un corposo tedesco dell’est, Michael Hubner. Destinato non solo a raccogliere l’eredità di Nakano, ma a cambiare per sempre l’immagine di quella disciplina.
Una vera star in Giappone
Hubner, scomparso pochi giorni fa all’età di 65 anni, in 13 anni ha portato a casa qualcosa come 16 medaglie mondiali, di cui 7 d’oro fra sprint, keirin e sprint a squadre. Del keirin era diventato un maestro tanto che fu tra i primi che si spostò in Giappone per prendere parte al circuito di gare intorno al quale si sviluppavano enormi scommesse. Un ambiente completamente diverso da quello a cui era abituato, lui proveniente dalla Germania Est dove lo sport era uno dei pochissimi modi di affrancarsi dalla povertà, ma anche di servire lo Stato. Invece nel Sol Levante era, dopo pochi anni e passando attraverso la riunificazione, una vera star, tanto che ci passava gran parte dell’anno tornando in Europa solo per i grandi eventi.
D’altronde, in Giappone non lo bollavano come “grassone” che era uno degli epiteti con cui era additato nei velodromi. Altro che body shaming… Michael aveva sempre avuto un fisico enorme, arrivando a pesare anche oltre il quintale. Ai mondiali di Palermo, quando il tedesco aveva ormai 35 anni si pregiarono di misurargli la circonferenza delle cosce: 67 centimetri. Diciamo la verità: Hubner non era molto ben visto nell’ambiente, dove quella possenza veniva etichettata come frutto del doping. Non lo hanno mai trovato positivo, ma d’altro canto era quello uno dei segnali del cambiamento, da una specialità prima fatta di tattiche e di surplace a una frutta quasi esclusivamente della forza fisica.
Lo sguardo di sfida prima del via
Hubner, questo cambiamento lo gradiva, ne aveva fatto quasi un vanto, trasformando lo sprint a qualcosa di vicino, almeno iconograficamente, a uno sport da combattimento: «Sali in bici, fissa l’avversario fino a farlo cagare addosso e poi taglia il traguardo per primo. Lo sprint è un lavoro che funziona così», diceva.
Da bambino era già bello robusto e i genitori, vedendolo, pensarono a come fargli sfogare tutta la sua energia. Provò il calcio, il nuoto, l’atletica, ma niente lo divertiva. Poi salì in bici e praticamente non ne scese più. Col passare degli anni e con le vittorie che si accumulavano proporzionalmente al suo conto in banca, Hubner trasformò quel naturale fastidio che provava nel vedere gli sguardi irridenti degli altri, le battutine, in guasconeria. Non parlava spesso con i giornalisti, quand’era atleta, ma quando lo faceva non mancavano proclami e guanti di sfida, come se non avesse freni.
Il keirin, il suo mondo…
Al tempo i rivali principali dei tedeschi (quasi tutti dell’est) erano gli australiani, anche loro, anzi forse più, chiacchierati e Hubner strinse con loro una fiera rivalità, anche se con il più forte di loro, Gary Neiwand, spesso si allenava insieme. E non poteva essere altrimenti, visto che entrambi agivano spesso in Giappone e si sa che in quel contesto gli “stranieri” facevano gruppo fra loro.
Col passare degli anni il keirin era diventato la sua disciplina preferita, non è un caso se di titoli ne ha vinti più in questa prova. Ma Hubner era anche persona oculata e mentre continuava nel suo girovagare per i velodromi, avviava intanto le sue attività lavorative, nel settore immobiliare, in un ristorante di specialità sassoni, il Fettbemme: «Io potrei andare avanti per altri 10 anni – diceva all’alba delle sue 35 primavere – ma questo lo dice il fisico, la mente si sta allontanando ormai…».
Il gigante di Chemnitz
Negli ultimi anni spesso Hubner veniva chiamato a gareggiare anche nelle Sei Giorni. Il suo fisico enorme faceva visivamente a pugni con quello della maggioranza dei suoi rivali, tutti stradisti esili come fuscelli.
Per questo spiccava, per questo agli organizzatori piaceva. Il “gigante di Chemnitz”, un altro dei suoi soprannomi (decisamente più condivisibile) chiuse la sua carriera nel 1996, a 37 anni con l’ultima delle sue medaglie, l’argento in una specialità allora agli albori, il team sprint, insieme a Soren Lausberg e Jens Fiedler che nel frattempo aveva raccolto il suo testimone.
Il rammarico dell’Olimpiade
Dopo, Hubner è rimasto nel mondo dei velodromi, come direttore sportivo del team Theed Project-Cycling attraverso il quale sono passati molti protagonisti della pista tedesca e mondiale del nuovo millennio da Maximilian Levy a Lea Friedrich fino alla campionessa olimpica Kristina Vogel.
Quando quest’ultima ha vinto il primo dei suoi due titoli olimpici, nel Team Sprint 2012, sul viso di Hubner scorsero lacrime sommesse, che mischiavano la gioia per la sua atleta al rammarico per non aver potuto vivere quelle stesse emozioni, quella stessa atmosfera. Eppure è diventato ugualmente una leggenda dello sprint, come la stessa Vogel l’ha salutato all’indomani della sua scomparsa.