Gianni Savio se n’è andato lasciando in eredità il suo ennesimo tributo al ciclismo italiano. Il dirigente scomparso a 76 anni era stato infatti “costruttore” della Petrolike, il team di licenza messicana fortemente voluto per dare uno spazio di crescita ai corridori locali, ma aveva fatto subito presente come fosse necessario, per conseguire i suoi ambiziosi traguardi, infarcire il roster di corridori svezzati, pronti al ciclismo europeo e quindi italiani.
L’ultima avventura, che Savio non ha potuto vivere, vedere concretizzarsi e questo è uno dei più forti rammarichi che ha lasciato in Marco Bellini, il suo braccio destro da 25 anni (con lui nella foto di apertura alla presentazione del Giro 2012: con loro Rujano). Per lui parlarne, a qualche settimana di distanza dalla scomparsa di quello che innanzitutto era un amico, non è semplice: «Per 25 anni sono stato più con Gianni che con mia moglie. Ho iniziato nel 2001 come diesse, poi dal 2010 sono entrato nella società e ci eravamo divisi i compiti in maniera chiara: io mi occupavo della parte gestionale, del rapporto con gli sponsor, lui della stampa, delle pubbliche relazioni».
Gianni era uomo di un ciclismo antico, come faceva a rimanere al passo con uno sport che è cambiato così tanto?
Era un personaggio con un carattere diverso, non aveva bisogno di adattarsi, anzi a questo ciclismo metteva un freno. Per due volte ha avuto la possibilità di fare il vero salto di qualità, nel 2011 e nel 2017 ma in entrambi i casi ha scelto di non venire meno allo spirito del team, al “suo” ciclismo per conformarsi. Sicuramente aveva una concezione che mancherà in questo mondo.
E’ sempre rimasto legato all’altra parte dell’Oceano, perché?
Perché la sua natura era davvero vicina alla cultura, alla società, al modo di vivere in quelle terre. Lì si sentiva a casa sua e lo accoglievano come fosse di lì. Sempre. Trovava un ambiente ospitale che fosse in Colombia, in Venezuela, in Messico. Era sempre in contatto con i media locali. Attraverso di lui il ciclismo sudamericano si è evoluto, partendo da Cacaito Rodriguez, Leonardo Sierra, José Rujano. Ne ha tirati fuori tanti avvalendosi anche dei suoi infiniti contatti con appassionati del posto. Lo stesso Bernal è una sua scoperta.
Perché dici che la Petrolike resta un rammarico?
Non ha potuto viverla appieno. Era ormai un anno e mezzo che per le sue condizioni di salute non poteva uscire di casa e per lui il ciclismo andava vissuto sul posto. Dopo l’operazione all’anca gli mancavano le corse. La squadra è stata la sua ultima creatura, per certi versi il suo lascito, infatti era stato chiaro nella volontà di partire sì con un progetto locale ma poi, se volevano davvero farlo crescere, renderlo multinazionale e con un’anima italiana, come sta avvenendo.
La squadra cambia un po’ pelle rispetto alla stagione precedente…
Seguiamo i programmi che ci siamo dati sin dalla sua fondazione. Il primo anno è stato molto positivo, ora dobbiamo crescere come qualità per poi, se tutto andrà bene, provare a fare il salto fra le professional nel 2026. Il cambiamento si vedrà subito, infatti saremo a Mallorca e nelle corse spagnole d’inizio stagione, affrontando subito le squadre WorldTour e consentendo ai ragazzi di fare una grande esperienza.
E’ un team che diventa molto italiano.
Lo era già, non solo attraverso la mia presenza, ma abbiamo Fabrizio Tacchino come preparatore, Andrea Peschi fra i diesse, il nutrizionista Cristiano Caporali che viene dalla nazionale di triathlon. Poi chiaramente ci saranno i corridori e qui abbiamo cercato gente d’esperienza, che potesse essere utile per insegnare e dare l’esempio ai più giovani certamente non senza inseguire le proprie ambizioni personali, che sono anche quelle del team.
Su chi avete puntato?
Noi abbiamo scelto tre corridori, tutti con caratteristiche diverse. Per Filippo D’Aiuto mi sono affidato molto all’esperienza di Peschi che conosce bene il mondo degli under 23. Filippo racchiude quelle caratteristiche che cerchiamo, un corridore giovane ma con un grande equilibrio personale e una spiccata personalità. C’è poi Lorenzo Galimberti che sarà importante nelle corse impegnative, vista la sua propensione per le salite e infine Lorenzo Peschi, il figlio di Andrea che aiuterà gli sprinter.
Italiani a parte, la punta del team resta Caicedo?
Certamente, è il nostro diamante e nella prima stagione lo ha dimostrato portando a casa molti risultati, ma abbiamo alle sue spalle molti corridori che possono crescere proprio cibandosi della sua esperienza, come i fratelli Prieto o anche Macias. Inoltre arriva nel team anche l’ucraino Andrii Ponomar, che ha una gran voglia di rivalsa. E’ ancora giovane e con grandi potenzialità inespresse. E’ una squadra con un grande potenziale, ma aveva bisogno dell’iniezione di esperienza soprattutto perché buona parte del suo calendario sarà in Europa, in gare di elevato prestigio. Correre nel Vecchio Continente è la scuola migliore, ma bisogna farlo con approccio umile, cercando d’imparare il più possibile.
Partite subito forte…
Sia chiaro che non andiamo in Spagna con l’intento di fare chissà cosa, i ragazzi devono essere consci che saranno di fronte al meglio del movimento. Io voglio che acquisiscano esperienza, che capiscano com’è il ciclismo a certi livelli, ben diverso da quello che hanno affrontato finora. E’ un grande sacrificio che facciamo, ma sono sicuro che è per una buona causa. Questo anche grazie ai nostri dirigenti, che non chiedono risultati immediati, che capiscono qual è la nostra realtà e affrontano tutto con pazienza e concretezza.
Per la professional che altri passi serviranno?
Dovremo arrivare a un roster di 20 corridori, equamente divisi fra sudamericani ed europei e soprattutto dovremo prendere corridori che siano in grado di raccogliere risultati. Sarà un altro passo importante, imponente direi e potremo farlo solo con l’appoggio delle aziende che ci supportano, come Sidermec e Androni Giocattoli che sono sempre rimaste al nostro fianco come anche Salice Occhiali e Pella Sportswear. Ma intanto pensiamo alla stagione alle porte, per dare continuità al nostro discorso.
E per salutare Gianni nella maniera migliore…
La cosa che mi manca di più è quel telefono che squilla alle 11 del mattino. Era come una sveglia: Gianni era solito alzarsi tardi, infatti soffriva quando era al Giro e doveva svegliarsi presto. Durante la giornata ci sentivamo spesso, anche alla sera la sua ultima chiamata era per me. Ma cascasse il mondo, alle 11 del mattino il telefono squillava. E oggi a quell’ora mi capita di guardare lo smartphone e pensarlo…