«Quando avevo poco più di 20 anni – sorride Marcato – facevo un allenamento di sei ore e il giorno dopo, non dico che avevo già recuperato, però stavo bene. Adesso quando faccio un allenamento importante di sei ore, magari ho bisogno di due giorni per recuperare. E’ una differenza che fa pensare».
Il Tour of the Alps si avvia alla conclusione, il dialetto trentino ha preso il posto dell’ingombrante tedesco dei giorni scorsi e il caffè al bar ha un gusto più accogliente. Il veneziano del Uae Team Emirates ha appena firmato il foglio di partenza e, mentre parla, un angolo della memoria va indietro, cercando la prima volta che lo incontrammo. Probabilmente fu nel 2004, quando correva alla Bata di Rino Baron con Leonardo Moser e lo stesso Michelusi che ora allena Aru alla Qhubeka-Assos, ma bisognerà controllare. Di sicuro la sua storia nel ciclismo, vissuta spesso con il sorriso, ha radici profonde.
«Doveva essere la stagione della ripresa – dice – e in parte lo è, di certo rispetto a quella passata, perché le corse ci sono. E noi come movimento ciclistico internazionale abbiamo dimostrato di poter correre in sicurezza. Ci sono stati tanti sforzi da parte delle squadre e degli organizzatori, abbiamo fatto vedere che il ciclismo si può fare. E per me è lo stesso. Poter correre è quello che più voglio fare e avere questa opportunità, sia pure fra tamponi e il resto, fa molto piacere».
Però… che cosa ci fa un uomo del Nord sulle montagne del Trentino?
Ho fatto la prima parte lassù. E archiviate le pietre sono venuto qui a fare un po’ di salita e un po’ di fatica. Non sono qui a preparare il Giro, la carta di identità parla chiaro. Ci sono tanti giovani e tante pedine da giocare, nei grandi Giri e nelle altre corse. Se me lo chiederanno, sarò pronto e ben felice di partecipare, ma giustamente prima vengono gli interessi di squadra.
Un tempo la parola “giovane” si associava alla freschezza, ma anche all’inesperienza. Possibile che oggi sia sinonimo di “invincibile” e che sappiano già tutto?
Quelli che passano sono molto informati. Un po’ perché magari, fin da quando sono juniores, hanno metodologie di allenamento avanzate. Però sicuramente ci sono corse e corse. Nelle classiche del pavé conta tanto l’esperienza e nonostante si sia già pronti a livello tecnico e fisico, sapere dove limare, dove essere davanti al momento giusto, dove recuperare è fondamentale. Soprattutto nelle corse di sei ore, dove la posizione in gruppo fa la differenza. Mentre magari in altre corse, con tante salite o l’arrivo secco, la freschezza di un giovane viene fuori e può fare la differenza.
Quali obiettivi si possono avere allora a 37 anni?
Un obiettivo concreto per me è fare una bella stagione, visto che comunque è la mia 17ª da professionista, e cercare sempre di dare il massimo per la squadra. Ci sono stati anni in cui ho provato a vincere e a prendermi le mie soddisfazioni personali, però sono anche consapevole dei miei limiti. Oggi il mio obiettivo è aiutare i compagni, essere presente e magari insegnare qualcosa ai giovani. Fa sempre piacere, mi inorgoglisce sapere che mi vedono come punto di riferimento e mi ascoltano.
A proposito di giovani, che effetto fa andare a correre con Pogacar in squadra?
Sicuramente vai alle corse per vincere e già questo ti dà morale, uno stimolo in più per dare il 110 per cento. Tadej trascina un po’ tutti. Sai che comunque sarà presente, sai che ogni tuo sforzo viene ripagato e penso che questo sia la cosa più bella e più importante per ottenere risultati e vivere tutte le corse in armonia.
Parliamo di un giovane che ha bisogno di ascoltare o di un giovane che non è più giovane?
E’ uno che a livello di testa è molto forte. Sa dove può arrivare e ha ben chiaro il suo percorso. Magari man mano che si presenteranno le occasioni, ci potranno essere dei momenti in cui avrà bisogno di essere indirizzato o corse in cui potrà avere bisogno di un consiglio. Già alla Vuelta di due anni fa, mi è capitato di dividerci la stanza per un mese. Ci si parlava spesso. E uno che ascolta. Non dà mai nulla per scontato. Fu la Vuelta da neoprofessionista, con tre tappe vinte e il podio.
Ci pensi mai a cosa farai da grande?
Ci si pensa sì, al dopo. Ho 37 anni quest’anno. Il ciclismo è sempre più stressante, devi fare l’atleta per 365 giorni all’anno, non è semplice. Nonostante questo, dico che finché mi alzo al mattino e ho voglia di fare sacrifici e di allenarmi e sono competitivo, perché smettere? Però comunque la testa rivolta al dopo c’è. Vedremo se si presenteranno delle occasioni, anche rimanere nell’ambiente, mi farebbe piacere.
A casa tutto bene?
Sì, dai. Le bimbe, Aurora e Alice, vanno a scuola e questa è una gran cosa, soprattutto in questi giorni in cui mia moglie Elisa è sola a casa. Le scuole chiuse e la didattica a distanza sono state una bella prova. Adesso sembra che le cose vadano meglio e poi stasera torna a casa papà per dare una mano…