Non solo Corno alle Scale, c’è un altro arrivo del prossimo Giro d’Italia che ha acceso un ricordo a dir poco speciale. A Pian di Pezzé si concluderà infatti la 19ª tappa, il vero tappone dolomitico con salite come il Giau e il Falzarego prima della scalata finale, nominata Montagna Pantani. Sapete perché? Si è arrivati lassù una sola volta: era il 1992, a capo di un altro tappone dolomitico al Giro d’Italia dei dilettanti, quando un giovanissimo Marco Pantani attaccò da par suo e strappò la maglia di leader all’altrettanto giovane Wladimir Belli.
«Si partiva da Cavalese – ricorda il bergamasco – poi si scalavano il Sella, il Gardena, il Campolongo e da lì si scendeva ad Alleghe per fare la salita finale. Mi ricordo che ero il leader della corsa e la mattina andai da Marco e gli dissi: “Vabbè dai, hai fatto terzo nel 1990, secondo l’anno scorso, ti toccherà fare un altro podio”. Lui invece mi guardò in cagnesco e mi disse: “Belùn, preparati: oggi te la cavo!”.




Belli, Casagrande, Pantani
Fine di giugno del 1992, nell’estate che annuncia le Olimpiadi di Barcellona, cui l’Italia prenderà parte con Rebellin, Gualdi e Fabio Casartelli, che di Belli è compagno di squadra alla Domus 87. Ma per il momento la Spagna è più lontana dei 1.250 chilometri che dividono Cavalese dalla capitale catalana. Il 30 giugno si parla di futuro fra i tre italiani che nelle ultime stagioni hanno dominato la corsa organizzata dalla Rinascita di Ravenna. Oltre a Belli, primo nel 1990, c’è anche Francesco Casagrande, vincitore nel 1991. E poi Pantani, terzo e secondo nei due anni precedenti.
«Però partiamo dalla cronometro a Marina di Pietrasanta – racconta Belli – in cui, come sempre, gli avevo dato una… settimana, avevo un bel vantaggio. Non andavo fortissimo quel Giro, non ero in condizione al 100 per cento, perché l’anno prima avevo firmato il contratto da professionista e la testa era già di là».


La maglia a Cavalese
Non è il ciclismo dei watt, al mattino si mangia la pasta in bianco col pomodoro a parte, anche se Pantani a volte la condisce con la marmellata. La sua bici è una Carrera con il telaio in acciaio, perché anche lui ha firmato il contratto e da agosto salirà a bordo della corazzata di Boifava e Quintarelli. Belli invece andrà alla Lampre di Saronni e Algeri.
«Il mio diesse Locatelli – ricorda – neanche voleva mandarmici al Giro, perché lo sapeva che non avevo il peso giusto. Ma io avevo insistito, la tappa di San Pellegrino arrivava vicino casa e invece proprio quel giorno mi resi conto di fare fatica. Poi arrivammo a Cavalese e li ci fu la prima vera selezione. La maglia se non sbaglio l’aveva ancora Marco Serpellini, però Marco prese e andò via sul Passo San Lugano e dietro rimanemmo in pochi. Lui vinse la tappa e io misi la maglia. Andò forte, ma pensavo che mi sarebbe bastato controllare quel vantaggio piuttosto importante. Ero fiducioso, insomma, molto fiducioso. Invece il giorno dopo Marco mi sfidò. E io decisi di fargli capire subito che non ci fosse trippa per gatti».


Attacco frontale
Il resto è storia. Pantani attacca sul Sella e alle sue spalle il gruppo esplode. Fa quello che avrebbe fatto più e più volte tra i professionisti, guadagnandosi il suo posto nella storia. Casagrande cede quasi subito, poi tocca a Belli. Resistono soltanto due colombiani, che non lo impensieriscono. Il Sella da solo, poi il Gardena. E quando è sul Campolongo e chiede un po’ di zuccheri all’ammiraglia, dietro si accorgono di non averne. E’ il giorno in cui Orlando Maini, che con Davide Balboni guida la squadra dell’Emilia Romagna, entra nel vialetto di una casa e chiede un pacco di zucchero a una signora, ben lieta di aiutare.
L’arrivo ai piedi di Pian di Pezzé lo vede ancora in compagnia dell’ultimo colombiano, ma bastano pochi chilometri perché anche quello salti. Pantani ha regalato una sola tappa in carriera, quella di Selva Val Gardena a Guerini. Ma al contrario di quello che avviene oggi con il cannibale iridato, il suo atteggiamento venne preso per arroganza.
«Ero dietro attaccato a un filo – ricorda Belli – e pensavo: mollerà, mollerà, mollerà, mollerà. Invece mollai io e andai in crisi anche di testa. Mi sentivo forte, per questo accettai la sfida testa a testa. Invece per la prima volta nella mia carriera presi una sberla non solamente fisica, ma soprattutto mentale. Non ero abituato a farmi staccare. In più, nell’inverno tra il 1991 e il 1992, avevo iniziato a soffrire attacchi di panico. Al tempo non sapevo cosa fossero, ma non riuscivo più a rimanere concentrato sul ciclismo. Però questo non toglie che Marco fece una cosa grandissima, ancora una volta non aspettando l’ultima salita, ma attaccando subito».


Nasce l’amicizia
Della salita di Pian di Pezzé, Belli ricorda molto poco, perché ammette di non avere una grande memoria fotografica. E perché ci arrivò così conciato per le feste da non avere la lucidità e forse nemmeno la voglia di guardarsi intorno. Pantani vince la tappa e conquista la maglia gialla, che difenderà agevolmente l’indomani nella tappa di Gaiarine, vinta da Mariano Piccoli.
«So solo che presi una valanga di minuti – ammette Belli – perché quando si molla, si molla. Dopo l’arrivo non lo incontrai, andai a fargli i complimenti alla partenza del giorno dopo. Soprattutto i primi anni, non si parlava molto. Ci eravamo conosciuti da juniores e poi abbiamo sempre avuto un rapporto di stima reciproca, pur non parlando tanto. Da professionisti invece si matura, si ha più tempo per stare insieme e si capisce che prima dei corridori ci sono le persone. Da dilettanti facemmo con la nazionale la Settimana Bergamasca del 1991, che vinse Armstrong. Eravamo in camera insieme e nacque un po’ più confidenza. Da lì in avanti rimanemmo avversari, ma alla fine c’era qualcosa di più profondo e più umano. Quando c’era da ridere e scherzare, Marco non si tirava indietro».


Come Pogacar, 20 anni prima
Oggi quel modo di correre è la cifra stilistica di Pogacar. Nessuno ci ha più provato per anni fatto salvo Contador e il Froome al Giro del 2018: l’atleta calcolatore da cui meno sarebbe stato logico aspettarselo.
«E’ tornata la tendenza a correre da pirati – riflette Belli, brillante opinionista di Eurosport – la tendenza è quella di partire più da lontano. Le situazioni sono cambiate, c’è più coraggio. Pogacar insegna che si può fare. Tanti ci provano e rimbalzano, ma altri ci provano e poi arrivano. Hanno capito che non si può più aspettare l’ultima salita, perché il livello è alto per tutti. E a proposito di Pantani, ricordo una scena alla partenza da Asiago al Giro del 1998. Io ero compagno di squadra di Zulle che aveva la maglia rosa e lo aveva umiliato a cronometro e staccato a Lago Laceno. Marco venne da me e come sei anni prima io gli dissi che si sarebbe potuto accontentare. Lui mi guardò e mi disse: “Belùn, preparati: oggi gliela cavo!”. A me tornarono in mente le stesse parole di Cavalese, mi venne un brivido lungo la schiena e pensai che sarebbe stata una giornata lunga. Anche quella volta sappiamo bene come andò a finire…».