«Il ciclismo si corre dentro al mondo». Parola di Claudio Gregori

22.06.2025
5 min
Salva

Durante l’ultimo Giro d’Italia abbiamo visto in quasi ogni tappa manifestazioni in favore della Palestina. Scritte sull’asfalto, bandiere, striscioni. Questo ci ha ricordato che lo sport non è una bolla chiusa in se stessa, ma qualcosa che è sempre legato alle vicende storiche e politiche (in apertura foto Tim de Waele/Getty Images).

Il ciclismo in particolare, col suo passare per le strade del mondo, è sempre stato anche veicolo di istanze e che andavano oltre i suoi stretti confini. Per approfondire questo aspetto abbiamo raggiunto al telefono Claudio Gregori, forse il più grande cantore ed esperto italiano della storia del ciclismo. 

Gregori ha seguito dodici Olimpiadi, ventotto Giri d’Italia e tre Tour de France: una delle voci più autorevoli del giornalismo sportivo italiano
Gregori ha seguito dodici Olimpiadi, ventotto Giri d’Italia e tre Tour de France: una delle voci più autorevoli del giornalismo sportivo italiano
Claudio, cosa ne pensi delle manifestazioni contro la guerra a Gaza che abbiamo visto durante il Giro?

Lo sport fa parte della vita. Viviamo in una democrazia, una bella parola che significa che il popolo può esprimere le sue opinioni. Il popolo del Giro che si esprime contro il massacro che sta avvenendo in quella parte di mondo non solo è una cosa lecita, ma secondo me anche giusta. E’ qualcosa in linea con i principi democratici ma anche del cattolicesimo, basti pensare le prese di posizione di Papa Francesco, e anche del Pontefice attuale, a riguardo. La lotta per la pace è un dovere

Il ciclismo è più attento a quello che accade oltre la sua bolla?

La bici vive nel mondo, lo attraversa, vede le facce del mondo. Nella mia carriera ho seguito 28 giri d’Italia e credo di poter dire che il ciclista è più aperto al mondo perché lo conosce. La coscienza civica, che si manifesta anche attraverso lo sciopero, fa parte da sempre di questo sport. Il primo sciopero nella storia del Giro c’è stato già nel 1911, nella tappa Pescara-Roma, quando per colpa degli organizzatori la carovana sbagliò percorso e i corridori si rifiutarono di fare dei chilometri in più. Scioperarono e per arrivare a Roma presero il treno. Ma gli esempi di come la politica e la storia si sono incrociati con il Giro sono moltissimi. Basti pensare a quello del 1919, appena finita la Prima Guerra Mondiale, quando fu organizzata la tappa da Trento a Trieste, le due città irredente. Non era solo ciclismo, era un messaggio che l’Italia dava al mondo.

A proposito di Trieste è famosa anche la tappa del ‘46…

Certamente, anche quello fu un segnale fortissimo, arrivato soprattutto dai corridori. La tappa fu bloccata a Pieris da alcuni manifestanti che rivendicavano Trieste come città jugoslava e fu decisa la neutralizzazione. Ma in 17 vollero continuare ad ogni costo e così a Trieste arrivarono primo Cottur e secondo Bevilacqua, che non a caso correvano con la Wilier. Che è l’acronimo di W l’Italia Libera e Redenta

Giordano Cottur portato in trionfo al termine della tappa Rovigo-Trieste, uno dei più celebri esempi di come il ciclismo si è intrecciato con la storia politica del Paese (foto FB Giordano Cottur)
Giordano Cottur portato in trionfo al termine della tappa Rovigo-Trieste, uno dei più celebri esempi di come il ciclismo si è intrecciato con la storia politica del Paese (foto FB Giordano Cottur)
Quindi lo sport ha sempre suscitato interesse da parte della politica? 

Assolutamente. Nel 1923 quando Ottavio Bottecchia era maglia gialla al Tour la Gazzetta dello Sport istituì una sottoscrizione in suo favore. Il primo firmatario fu nientemeno che Mussolini, seguito da alti gerarchi come Balbo e Ciano. Il Duce ci teneva a ricevere sempre i grandi campioni, ma Bottecchia non ci andò mai, non si iscrisse nemmeno mai al partito. La politica ha sempre voluto mettere le mani sullo sport, perché è un formidabile strumento di propaganda. 

Viene in mente anche la storia secondo cui la vittoria di Bartali al Tour del ‘48 scongiurò una possibile guerra civile.

Questa è un po’ una leggenda, ma qualcosa di vero c’è. Gino Bartali era amico personale di De Gasperi, erano amici veri. Quando ci fu l’attentato a Togliatti, De Gasperi chiamò Bartali durante il giorno di riposo e gli chiese di provare a fare qualcosa. Il giorno dopo vinse il tappone alpino, quello dopo vinse ancora e indossò la maglia gialla che portò fino a Parigi. Questo ebbe un po’ un effetto-camomilla su quell’Italia in ebollizione, ma dire che quella vittoria abbia evitato la rivoluzione è esagerato. Anche perché anche Togliatti tifava Bartali. Appena si svegliò dall’operazione la prima cosa che chiese fu cosa avesse fatto Bartali al Tour.

Bennati alla Tirreno Adriatico del 2010, l’anno in cui visitò il campo di Auschwitz assieme a Claudio Gregori e Dario Cataldo
Bennati alla Tirreno Adriatico del 2010, l’anno in cui visitò il campo di Auschwitz assieme a Claudio Gregori e Dario Cataldo
Erano gli anni in cui il Giro aveva una forte impronta nazionale… 

Nel ‘50 lo svizzero Koblet aveva la maglia rosa in mano e i giornali cercarono di mettere in piedi una coalizione contro di lui. Gianni Brera, in quel momento il più giovane direttore nella storia della Gazzetta, scrisse un fondo bellissimo dicendo che “Nello sport non ci sono stranieri”. Una lezione bellissima che vale ancora oggi, anche se alcuni politici attuali forse non l’hanno ancora capita. 

C’è qualche aneddoto che hai vissuto in prima persona di incrocio tra sport e politica?

Nel 2010 il Giro partiva da Amsterdam, io ero lì come inviato della Gazzetta per scrivere i pezzi di colore. Ho chiamato Pozzato, volevo andare con lui alla casa di Anna Frank. Ha accettato e abbiamo visitato assieme la casa dove era nascosta con la famiglia. Il giorno dopo la Gazzetta ha fatto una pagina intera sulla storia di Anna Frank. Poche settimane dopo ero al Giro Polonia e una tappa partiva da Auschwitz alle 12,30. Ho convinto Bennati e Cataldo a venire con me a visitare il campo la mattina prima del foglio firma. E’ stata un’esperienza drammatica, ma bellissima.

Possiamo immaginare…

Mi ricorderò sempre che quando siamo arrivati alle camere a gas Bennati, un ragazzone grande e grosso, si è commosso moltissimo, e poi mi ha ringraziato per quel momento. Durante la tappa poi era prevista una sosta all’ingresso del campo, io naturalmente ero lì. Pensavo sarebbe stata una cerimonia poco sentita, invece no. C’erano corridori di 34 Nazioni diverse ed uno per ogni nazione ha portato una rosa davanti al cancello, c’era una tensione che non mi sarei immaginato. Un momento catartico. Il ciclismo è straordinario proprio per questo. Il calcio invece è diverso, anche solo per il fatto che si gioca dentro una scatola chiusa, isolata dal mondo.