Al momento di annunciare il suo ritiro, sorridendo, Thibaut Pinot ha detto che la prima cosa che farà dopo l’ultima corsa, sarà vendere i rulli. Leggere L’Equipe è fare soprattutto un viaggio fra ricordi comuni e sensazioni che tutti abbiamo provato un paio di anni fa. Qualcuno le ha elaborate lasciando la posizione in cui è cresciuto per dare vita a un nuovo progetto. Altri, come Pinot, hanno immaginato la loro vita fuori dal ciclismo.
«Se torno un po’ indietro – racconta – ho iniziato a pensarci durante il lockdown. Era la prima volta che mi sentivo me stesso. E’ stata, tra virgolette, una vacanza imposta, senza stress, senza pressioni, senza correre dappertutto. Da quel momento mi sono posto molte domande. Sul fatto che vivevo a 1.000 all’ora, che non mi stavo godendo i momenti. C’erano corridori sui rulli, io invece mi sono preso il tempo per dedicarmi alla mia fattoria, alla mia vita».
«Facciamo ogni giorno 4-5 ore di allenamento, ma ho l’impressione che ne servano 24. Hai sempre dentro una vocina che ti ricorda che sei un ciclista. Durante il lockdown, per la prima volta da quando ero piccolo, non avevo più la pressione di pensare sempre alla bici. Ho avuto un assaggio della vita che mi attende. Ripartire fu difficile perché significava lasciare i tre mesi migliori dopo tanto tempo».
Madiot e i paradossi
Madiot lo sapeva. Il burbero Marc, che a Porrentruy con mezzo busto fuori dall’ammiraglia festeggiò la prima tappa al Tour del 2012, ricorda di quando Pinot (al secondo anno da pro’) prese un treno da Melisey per pranzare con lui a Parigi, pregandolo di schierarlo in quel Tour.
«Il ritiro l’ho sentito arrivare – racconta – non sono sorpreso. Abbiamo avuto una conversazione in autunno e mi ha confermato quello che prevedevo. Il suo arrivo ha segnato l’inizio di una nuova era, la seconda nascita della squadra. Per molti corridori gli anni del ciclismo a due velocità sono stati un trauma, la generazione di Pinot ci ha fatto ritrovare uno slancio sportivo.
«E’ un romantico, un ragazzo con dei paradossi. Vuole stare tranquillo nel suo mondo e allo stesso tempo racconta la sua vita sportiva su Strava. Si allena duramente, ma al contempo non ha mai accettato tutte le possibilità di migliorare che gli sono state offerte. La sua realizzazione assoluta per me è la vittoria sul Tourmalet nel 2019. Un giorno gli chiesi se volesse vincere il Tour e se ci pensasse la mattina mentre si radeva. Lui rispose di no, capii che ci pensavo io al posto suo. Per me Thibaut si è spento con la caduta di Nizza al Tour 2020. La ricostruzione è stata lunga e dolorosa, Nizza è il punto di svolta».
Via dalla pressione
Un altro 90 che lascia il gruppo. Non si può parlare di ritiro prematuro, ma è arrivato prima di quanto si sarebbe immaginato. Più tardi di Dumoulin e Aru, ad esempio, ma con qualcosa che li lega.
«E’ stata una benedizione – dice – che non abbia vinto il Tour. Ovviamente sono poche le persone che possono capirmi. Volevo vincerlo e se non ci sono riuscito, è stato un segno del destino. Sarei diventato un personaggio pubblico, cosa che non volevo. Ogni volta che vincevo una tappa al Tour, non avevo fretta di tornare a casa perché sapevo che avrei avuto persone davanti al cancello. Quindi non riesco nemmeno a immaginare come sarebbe stato se avessi vinto il Tour de France. A casa non ci sarei tornato più…
«Avevo degli obiettivi, li ho raggiunti quasi tutti. Adesso ho solo la rivincita col Giro, non mi va di lasciarlo con il ricordo di un ospedale, perché il Giro resta la corsa più bella. Il ciclismo ha preso un terzo della mia vita e ora voglio dedicarmi alla mia seconda passione, gli animali, la natura. Se potrò avere il futuro che sogno è anche perché non ho vinto il Tour. La mia vita sarebbe cambiata troppo, per questo non me ne pento».
La vita del campione
Lo incontrammo per la prima volta ai mondiali di Mendrisio 2009, dopo la fresca vittoria al Giro della Valle d’Aosta. Aveva il futuro fra le mani, la Francia era certa che fra lui, Bardet e Barguil sarebbe uscito il prossimo vincitore del Tour.
«Sono già arrivato – ragiona – oltre le mie aspettative. Quando sono diventato professionista, non avrei mai pensato di vincere così tante belle gare. Mi rassicuro così. E poi sono rimasto onesto, nella mia filosofia ciclistica e per tutta la carriera. Ne sono soddisfatto. Avevo il potenziale grezzo per vincere più gare, un grande Giro per esempio, ma nel ciclismo di adesso questo non è abbastanza.
«Il Giro 2018 è stato un clic (fu portato in ospedale disidratato e con complicazioni renali nel giorno dell’impresa di Froome sul Finestre, ndr). Quando ti arrendi e finisci in ospedale in terapia intensiva, ti accorgi che è la vita non è solo ciclismo. Quell’esperienza mi ha aiutato ad accettare il ritiro dal Tour del 2019. Prima non sopportavo il fallimento, mi faceva molto male, ma dopo il 2018 è diventato diverso, mi sono detto che non potevo continuare a rovinarmi la vita. Non ho mai voluto la carriera di un campione, non è mai stato facile per me. Nei giorni del gruppetto al Tour, mi nascondevo nel mezzo perché non volevo che la gente mi riconoscesse. Mi vergognavo…».
Il più in alto possibile
Chissà se averlo annunciato prima toglierà il fuoco di dosso o gli permetterà di correre divertendosi come da under 23. Il programma è ricco, le aspettative ancora alte.
«Sono motivato a vincere il più possibile – dice – farò di tutto per questo. Ho detto in anticipo che il 2023 sarà l’ultima stagione, per liberarmi da questo peso e divertirmi per il tempo che resta. Non faccio una croce sul muro ogni mattina per i giorni che passano. Mi sento molto meno nervoso e più libero. Ho sempre detto che quando non sarei stato più in grado di vincere, avrei smesso.
«Sono sempre stato lucido riguardo alle mie capacità. Andrò al prossimo Tour con l’obiettivo di aiutare Gaudu. Perché il mio ultimo anno sia bello, devo esserci. Fosse solo per tutti quelli che mi hanno supportato. Da me ci si aspettava che lo vincessi, non ci sono riuscito. Il Tour e la Vuelta dell’anno scorso sono stati frustranti. Ma anche questo fa parte del viaggio che porterà alla pensione».