Il 12 agosto del 2001 Valentina Alessio era in Messico per una prova di Coppa del mondo juniores su pista. L’aveva convocata Federico Paris, allora tecnico della velocità azzurra. Lombarda di Lecco, aveva 18 anni e tutto avrebbe immaginato, fuorché di fare un record del mondo. Invece si ritrovò seduta accanto a un mostro sacro come Theo Bos, cinque titoli mondiali su pista e più di trenta vittorie su strada. Chissà se i ragazzi e le ragazze che Alessio allena su pista a Pordenone conoscono la sua storia. L’ultimo in ordine di tempo ad averci parlato di lei è stato Mateo Duque, il giovane argentino della Gottardo Caneva.
«Quando ho fatto il record del mondo – ricorda e sorride – fu una giornata bellissima. Ero junior, però mi portarono a correre con le elite. Dovevo fare semplicemente i 500 metri, per cui mi avevano dato la bicicletta di Villa, che mi pare fosse lì per fare il quartetto. Così mi diedero la sua bici perché era già pronta, con le corna di bue e tutto il resto. Io più o meno ero alta come lui, anche se qualche misura non era giusta e lui infatti mi disse di non spostargli la sella…».
E tu?
E io corsi con la sua altezza di sella. Ero in mezzo alle elite, mi piazzai al quarto posto e mentre stavo andando via, venne un giudice a dirmi che dovevo andare a fare l’antidoping. Io ero stanca morta, avevo appena finito la prova e quello era venuto a parlarmi in inglese. Lo guardai. Gli chiesi cosa volesse. E lui mi spiegò che serviva per omologare il record del mondo (35″550, ndr).
Non te lo aspettavi?
No, ma andai ugualmente con lui. Mi sedetti accanto a Theo Bos e solo allora cominciai a realizzare di averlo fatto.
Le statistiche dicono che sei nata a Lecco ad agosto del 1983, come sei arrivata in Friuli?
Mi sono sposata qua e sono rimasta. Ho corso fino al 2008, quindi ho smesso presto e quando è così qualche rimpianto ce l’hai. Ho dato quello che potevo, ma adesso vedo che le cose stanno cambiando. Quando correvo io, se non avevi sbocchi in pista, potevi entrare in un corpo militare o andavi a lavorare sostanzialmente. Non tutti entravano nei corpi militari, io non di certo. Poi ho avuto anche problemi alla salute e alla fine decisi comunque di smettere.
Una carriera quasi tutta su pista, giusto?
Ho vinto 17 titoli italiani e sono entrata in nazionale sin dagli juniores. Poi ho smesso per 2-3 anni a causa di un carcinoma alla tiroide e ho ripreso nel 2006 a far proprio pista come si deve. Ho fatto gli ultimi due anni, ma non c’era più un settore velocità. Di fatto hanno ripreso quest’anno dopo 12-13 anni di attesa, ma il settore ancora non è stabilizzato.
Come arrivi al velodromo di Pordenone?
Negli ultimi anni, mi allenavo qua a Pordenone. Conoscevo Gino Pancino (pordenonese, iridato in pista nel 1966) e conoscevo anche Rino De Candido perché era il tecnico della nazionale juniores dei maschi e insieme abbiamo fatto tantissime coppe del mondo. Loro sapevano che ormai abitavo qui e avevano bisogno di un affiancamento per Silvano Perusini, che dirigeva la pista. E quando lui ha scelto un’altra strada, mi ha lasciato in mano il velodromo.
Com’è mandare avanti un velodromo come il Bottecchia?
Non è facile, perché non è un velodromo piccolo. Abbiamo 150 iscritti, ma per fortuna ho un meccanico che mi dà una mano. Da solo non fai niente, anche perché l’allenamento lo dividiamo comunque su due turni. C’è il ragazzo che non è mai andato in pista e quello più esperto, ma non puoi seguire tutti insieme. Per questo ho bisogno di una mano, capito?
Tu segui la loro preparazione?
Li alleno. Li divido sempre in due turni, con gli esordienti e le donne nel primo turno, mentre allievi juniores e under 23 sono nel secondo. Insomma, vedo di organizzarmi al meglio.
Ti chiedono mai della tua carriera?
No, in realtà no. Evito di dirgli quello che ho fatto, perché essere stati atleti non significa poter essere dei buoni allenatori. Ci sono stati degli ex campioni che hanno combinato dei disastri. Così mi sono messa a studiare, ho fatto il terzo livello e alla fine due anni fa ho fatto il corso per pilotare il derny. La pista è sempre stata la mia casa, ogni tanto vado a vedere anche le gare su strada dei miei ragazzi che corrono in pista. Mi sono affezionata a loro e a volte li seguo.
Cosa vedi se pensi a quella Valentina a 18 anni e la confronti con gli juniores di adesso?
Non solo le ragazze, ma anche i ragazzi sono tanto piagnucoloni. Vogliono avere sempre la bici bella e tutto curato, anche se magari alla base non c’è una grande sostanza. E sono tanto viziati. Una volta ti davano la bicicletta, sceglievano il rapporto ed era quello, adesso se non hanno le ruote speciali, se non hanno il Garmin di ultima generazione, quasi non corrono. Parliamo proprio di Duque, che è molto bravo rispetto ad altri corridori che ho avuto. E’ molto preciso. Scende, si guarda la bici, fa dei ragionamenti super meticolosi.
Vai più in bici?
Zero. Quando bisogna preparare i campionati italiani, il tecnico regionale ogni tanto mi fa salire in pista per provare la tecnica. Però non ho proprio più il tempo per uscire. In più ho due figli che giocano a calcio. Insomma, il tempo è davvero poco.
Quanto tempo passi in pista normalmente?
Dipende da quando mi chiamano. Il 2-3 giugno è venuto ad allenarsi Francesco Ceci, che stava preparando gli italiani e non trovava un velodromo aperto. Mi ha chiesto questo piacere, ci conosciamo da tanto e sono venuta qua a passare due giorni con loro. Normalmente sono qua tre volte a settimana. E per il resto lavoro in un negozio di elettronica. Però lo ammetto, mi piacerebbe ogni tanto avere un giorno per me e fare giusto qualche giretto in pista. Ma chi ce l’ha il tempo?