Ormai gli asini sono 32. Ognuno di loro ha un nome. Uno di questi si chiama Iroso, come l’ultimo ciuchino degli Alpini. Gli ettari di vigna invece sono sei, mentre le bottiglie stappate sulla tavola… beh, quelle è meglio che non ve lo diciamo!
L’azienda agricola di Marzio Bruseghin, San Maman, sorge su un balcone naturale con vista su Vittorio Veneto. Un posto magico, soprattutto di questi periodi con le cime del Nevegal imbiancate di fronte, e quelle del Cansiglio alle spalle, i larici gialli in alto, il marrone degli alberi appena sotto e il verde in basso.
«I tramonti sono belli qui – racconta Bruseghin – Un mese fa viene su una macchina. Due americani. Parcheggiano e mi chiedono se possono vedere il tramonto. Io gli porto una bottiglia. Vogliono parlare ma io ho da fare: “vado dalle galline – gli dico – se quando torno ci siete ancora parliamo”. Uno di loro era uno dei sopravvissuti al disastro aereo sulle Ande. Il film Alive per capirci. Eh sì, qua è un via vai continuo».
Qualcuno, soprattutto belgi e olandesi, si arrampicano sulla stradina cementata perché sanno del Bruse corridore, altri per la fama del suo buon vino. Tra chi va e chi viene, a volte, c’è anche lo scrittore-scultore-alpinista Mauro Corona.
Il ciclismo anglosassone
Questo posto è lo specchio della filosofia di Bruseghin. Vita semplice, strettamente legata alla terra, ma anche tanto lavoro. Che poi era il Marzio corridore, sempre pronto per i suoi capitani. Ed è proprio questo aspetto a portarci da lui, la curiosità di una domanda: ma Bruseghin come ci sarebbe stato in questo ciclismo del dettaglio sempre più esasperato?
«Nooo – risponde sincero Marzio – il mio era un altro mondo. Con il mio carattere credo sarebbe impossibile. Magari se fossi ancora un corridore mi adatterei, ma con la testa di adesso no, non è il mio ciclismo.
«Se ci cresci oggi magari è normale, riesci a sopportare, anzi, a vivere meglio tutto quello che comporta il ciclismo attuale. Già nelle mie ultime stagioni, intorno al 2008, ho iniziato ad avvertire il cambiamento. Prima c’erano la scuola belga e olandese e quella italiana e spagnola, da quel momento invece è arrivata quella anglosassone che ha portato con sé un’altra idea di ciclismo, un ciclismo di prestazione. E sono rimasto spiazzato. Hanno alzato il livello dei budget, degli sponsor, della velocità… Sapete, credo che anche Pantani avrebbe avuto difficoltà in questo ciclismo».
Emozioni e prestazione
Ma qualcosa di buono ci dovrà pur essere? Anche dopo il fuoco ricresce l’erba fresca. Bruseghin ci pensa un po’. Mentre sorseggia uno dei suoi spettacolari prosecchi attacca.
«Chi ha visto giocare Maradona e vede che un centrocampista fa fatica a stoppare il pallone si risente. Allora penso che chi è cresciuto, anche come spettatore, con questo ciclismo magari lo accetta di più e si gode questo aspetto. Di positivo mi piace l’evoluzione tecnica delle bici. E, forse, i ragazzi hanno più capacità mentale di sopportare certe routine. Io sarei durato un anno con tutto quello che fanno oggi, ma ripeto, loro ci crescono. Sono più abituati a stare fuori tanti giorni, a fare tanti ritiri. Il mio era un ciclismo agricolo. Ma nel vero senso della parola. Soprattutto per noi veneti, i toscani già erano più “professionali”. C’era “Il Michi” che correva con me da ragazzo che faceva tre lavori: riparava motori, di notte andava a caricare i polli e di tanto in tanto faceva anche il becchino.
«La prestazione è un equilibrio tra fisico, testa e benessere generale. Se per arrivare al 100% sul piano fisico spendi il 110% in benessere e testa rendi meno, ti finisci. E’ meglio stare al 95% fisicamente ma super carico di testa.
«Il ciclismo è uno sport di emozione e non di prestazione. Più questa è alta e meno si possono fare le differenze, più lo scatto da lontano è impossibile, specialmente oggi che sono tutti allenati al meglio e sono molto livellati. Questo alla lunga porta via ascolto e anche il contato diretto con gli atleti alle corse. Se dopo l’arrivo devo scappare via perché entro 36 secondi devo bere il bibitone per il recupero è chiaro che non posso stare tra i tifosi. Il ciclismo vive di sfumature, di contatto. E’ uno sport popolare».
Il bivio del 1996
Non si siamo qui per negare l’evoluzione, inevitabile, di uno sport, ma per capire alcuni punti di vista differenti, per analizzare e magari per individuare dove e come correggere. O quantomeno cosa è successo.
«Io resetterei tutto e ripenserei agli errori fatti nel 1996, riprendendo quello che c’era di buono di quell’epoca. Perché il ’96? Perché in quell’anno fu creata la categoria U23, togliendo di fatto i vecchi dilettanti. E questo ha fatto sì che chi arrivava a 24 anni non passava più. Oggi questo limite si sta abbassando ulteriormente. Se ripenso a certi nomi che sono passati a 25-26 anni e anche più: Pascal Hervé, Stefano Garzelli, Luca Scinto, Alessandro Ballan.
«Sì, si correva con gente che magari era vicina ai 40 anni ma che problema c’era? Se c’era uno come lui – Bruseghin indica Giacomo Gava, colui che lo ha messo in bici – chi avrebbe preso? Il 35enne che vince o il 22enne che arriva quinto? Il futuro del corridore non era compromesso. E in più le corse erano interessanti. Oggi dopo 40 chilometri resta in gara la metà del gruppo. In qualche modo il sistema, a nostra insaputa, era già quello delle Continental, ma dava a tutti la possibilità di emergere».
Tutto anticipato
Passeggiando nell’azienda, Bruseghin ci mostra anche i suoi cani da caccia: tra quelli regalati e il paio che già aveva ormai sono un bel po’! Quando poi va verso gli asini questi gli vanno incontro e allungano il muso per una carezza. Il tramonto tanto caro agli americani in effetti è proprio coinvolgente. Tutto prende fuoco.
«Marzio – gli chiediamo – dicci la verità, per ritornare quassù quando correvi, mettevi la bici in macchina, non facevi quella stradina in salita, vero?».
«No, macché macchina. Ero troppo pigro per smontarla e metterla su! O di qua – e indica la stradina cementata che sale da Vittorio Veneto – o di là, ritornavo su in bici».
Il ciclismo è uno sport di emozione, non di prestazione
Marzio Bruseghin
«Io giocavo a pallone – riprende Bruseghin – Mi piaceva, avevo anche visione di gioco, solo che quando tiravo volevo mandare la palla da una parte, ma questa andava da un’altra! Giacomo, mi ha messo in bici da secondo anno da allievo. Me lo ricordo ancora, sarà stato un 3 maggio, forse 4, e il 29 dello stesso mese ho fatto la mia prima gara. Quasi non sapevo quale fosse il freno davanti e quello dietro! Ma si poteva fare…
«Anche le corse da allievi erano interessanti, più libere. I direttori sportivi lasciavano esprimere i ragazzi. Li mandavano in fuga, li facevano sbagliare, li facevano stancare, “aspettavano” la corsa, non la impostavano. Non c’erano i ruoli: tu tiri in salita, tu in pianura, quello vince. Certo, se poi si arrivava nel finale e si sapeva che un ragazzo era veloce una “riordinata” la si dava, ma ripeto si era “aspettata” la corsa.
Non solo il ciclismo nei guai
«Oggi si va sempre più indietro. Ci sono ruoli e corse impostate da U23, da junior, da allievi, ci manca solo che lo facciano anche tra gli esordienti. Tu appiattisci il corridore e dai spazio solo a quello più forte. Di fatto ci sono pochi junior perché prendono solo gli allievi migliori. Gli stessi che magari hanno tirato per il compagno di squadra. Ma che senso ha? Magari quello che vinceva era solo più avanti fisicamente e non era il più forte. Risultato? Hai perso un ragazzo.
«Questo però è un problema di tutti gli sport, non solo del ciclismo. Ritorno al discorso della prestazione. Se entri in una scuola e chiedi ad una classe chi fa sport un quinto alzerebbe la mano. E di quei 4-5 ragazzi forse uno fa ciclismo. Mi rendo conto che è tutto più costoso, anche organizzare corse e squadre. Andrebbe semplificato… tutto».
E’ ora di andare. Il sole sta calando e i colori della valle si fanno freddi e scuri. Rientriamo. Il caldo del cammino, le bottiglie ancora sulla tavola e un cartone con un prosecco e una grappa che ci viene dato in mano. Lo berremo alla tua salute, caro Marzio.