Nella testa di un velocista, guida d’eccezione Angelo Furlan, 17 vittorie da professionista (in apertura quella del Delfinato 2009 su Boonen) e oggi coach, biomeccanico e organizzatore di academy per bambini con AngeloFurlan360. Ci aveva incuriosito un suo post su Facebook su cosa significhi essere uno sprinter.
«Essere velocisti – ha scritto il 20 febbraio – ogni anno 365 giorni di sacrifici per 20 secondi di puro orgasmo e poi… riparti da capo. Tanto dura quanto affascinante. Non ho rimpianti, ma l’ultimo km… Sì, quello mi manca da matti; l’adrenalina le endorfine… Rifarei tutto dalla A alla Z. Il ciclismo è la vita amplificata; è scuola di vita accelerata all’ennesima potenza. Niente scuse impari a dover prendere decisioni sotto pressione in un millesimo di secondo, sgomitare, evitare le cadute, ad assumerti le tue responsabilità nelle sconfitte e nelle vittorie… Impari a non trovare scuse. Impari ad impegnarti di più senza trovare alibi».
Dimensione matrix
Poteva bastare ed è piaciuto di certo ad oltre 700 follower. Si capiva però che ci fosse dell’altro. Per cui abbiamo accettato di fare un giro nella sua testa, scoprendo quello che Angelo definisce il matrix.
«Velocista non smetti mai di esserlo – dice – sono otto anni che ho smesso e applico tutto quello che ho imparato. Ci sono continue analogie tra la vita del corridore e quella del lavoro, dai corsi che organizzo agli altri progetti. Però mi manca l’adrenalina dello sprint. Il frizzantino di quando entri in quel matrix e trovi la pace dei sensi in quella fase che agli altri provoca terrore. Ti annusi con gli altri, riconosci i loro movimenti. Anche nella vità è così. Ti sposti a destra, vai a sinistra, freni e rilanci. Lo scalatore va in bici per il panorama, noi per quell’adrenalina. Credo di poter dire che di base il velocista sia bipolare».
Spiegati meglio.
Il velocista vive di paradossi. E’ una persona calmissima, nasconde agli altri il mondo che ha dentro. Come nel film “A Beautiful Mind”. Per essere velocista non basta avere gambe grosse e picchi altissimi, peraltro una tipologia di velocista che sta sparendo. Devi avere qualcosa dentro, una sorta di settimo senso. Non so come spiegarlo. Velocista si nasce e non si smette di esserlo. Lo vedo quando sono in macchina e quello davanti sbaglia una curva o mi scopro a immaginare la traiettoria più breve per arrivare prima.
Lo tiene nascosto fino a un certo punto, hai mai osservato gli occhi di un velocista?
No, cosa fanno?
Anche quando è a riposo, non stanno mai fermi. Sono veri scanner. Come si fa a convivere con quest’ansia?
Devi trovare il modo per sfogarla, altrimenti diventa qualcosa di pericoloso. Io ad esempio prendo la mountain bike e faccio le mie belle discese a filo di rocce. Pratico sport che richiedono un’attenzione estrema. Se in qualche modo non liberi la bestia che hai dentro, rischi la tristezza o di andare giù di testa.
Un tuo collega un giorno raccontò che in volata sembra di vivere tutto al rallentatore.
Diventa tutto chiaro, hai i sensi così amplificati che riesci a vedere anche quello che succede alle tue spalle. Capisci chi frena, chi si sposta. Io lo chiamo il matrix…
Ce lo racconti?
Entri in un’altra dimensione. Adesso mi prenderanno per matto, ma mi è capitato più volte di vedermi dal di fuori. Raggiungevo lo stesso tipo di introspezione nelle tappe alpine, in cui la scelta era fra morire o staccare l’anima dal corpo. Di solito era la seconda, perciò mi risvegliavo dopo un’ora e mezza che in qualche modo ero rientrato nel tempo massimo ed ero arrivato in hotel. E sì che per noi anche la volata era una fase eterna. Quando c’erano Cipollini e Petacchi con i loro treni, noi altri arrivavamo alla volata già finiti. Il terzo era quello che usciva dall’incontro di boxe fatto di gomitate e scatti per tutti gli ultimi 10 chilometri. Garzelli un giorno venne a dirmi che non si capacitava di come facessimo.
Cosa succede quando guardi una volata in tivù?
Mia moglie dice ai bambini di uscire dalla stanza perché papà ha da guardare la volata. E io mi trasformo.
Potresti avere la bestia dentro perché pensi di non aver dato tutto?
No, in realtà no. Ho fatto 13 anni da professionista e sempre al massimo livello. Ho smesso per restare in famiglia. Non ho nostalgia del preparare la valigia e per questo non ho fatto il diesse, ma sapevo che quella parte non sarebbe più tornata. Smettere è stato un inizio. Sono sempre nel ciclismo e la seconda carriera mi sta dando quasi più soddisfazioni della prima. L’unica cosa che mi brucia è quando Freire mi passò sul filo alla Parigi-Tours del 2010.
Ti capita mai di fare volate con gli amici?
Sì, ma devo stare attento, perché mi si chiude la vena e rischio di fare disastri (ride, ndr). Mi sono allenato per una vita con Fabio Baldato, che è un amico al pari di Andrea Ferrigato. E dopo un po’ che pedalavamo, Fabio mi faceva spostare sulla sinistra perché non mi rendevo conto sistematicamente di dargli gomitate e di spingerlo verso il ciglio.
Ci voleva pazienza con te…
Qualcuno ti sceglie per essere velocista. Quando vedi una riga che taglia la strada, chiunque o qualsiasi cosa si frapponga fra te e lei, è un nemico. Non distingui più i colori, vedi solo la riga. Alla Vuelta del 2002 in cui vinsi due tappe, non volevo i compagni davanti, ma dietro, per dirmi cosa accadesse alle mie spalle.
Il contrario del treno…
Ero un velocista da trincea, le volte che ho vinto con il treno non sono state altrettanto belle.
Petacchi ammise di non essere un velocista, ma un corridore potente che con il treno diventava imbattibile.
Analisi corretta, anche se un po’ di predisposizione deve esserci. Pozzato poteva essere come Petacchi a livello di numeri, ma non faceva le volate perché aveva paura. Lo stesso Cancellara oppure Backstedt.
Di recente Greipel ci ha detto di ricordare tutte le volate che ha vinto.
Ha ragione. Io ho rimosso dalla mente tante salite che ho fatto, ma delle volate ricordo anche gli odori.