La sua poteva essere la storia di Egan Bernal, ma 15 anni prima: la storia di un grande stradista nato dalla mountain bike. E oggi che Leonardo Paez si avvia verso i 40 anni con due mondiali vinti e decine di grandi marathon in bacheca, scopriamo che in fondo allo sguardo gli resta un piccolo rimpianto legato alla strada.
Lo incontriamo nella Fattoria Pieve a Salti, alla vigilia della Strade Bianche, mentre si muove con grande discrezione in mezzo ai pro’ della Soudal-Quick Step. Il volto sudamericano di chi è nato specchiandosi nelle cime delle Ande, Paez ha alle spalle una carriera esemplare e ancora oggi è il riferimento dei biker del Soudal-Lee Cougan International Team di Stefano Gonzi.
Numeri da fuoriclasse
Il posto in cui è nato, Ciénega nella regione di Boyaca, è nel cuore della regione dei grandi scalatori colombiani. Lassù, si corse il mondiale del 1995 e di recente il Tour Colombia ha permesso di ricoprirne la magia. Le strade e le salite di Nairo Quintana e Miguel Angel Lopez, come pure di Oliverio Rincon e Mauricio Soler, Buitrago, Anacona e il vecchio Patrocinio Jimenez. In quella terra verdissima sul filo dei 2.500 metri, nel 1982 nacque Hector Leonardo Paez Leon. Corridore di bici, ma in fuoristrada. E chissà che cosa sarebbe successo se qualcuno gli avesse dato la possibilità di continuare anche su strada. Ancora oggi viaggia in salita con 7 watt/kg ed è così da vent’anni. Forse arrivò in Europa troppo presto rispetto alle nuove leve del ciclismo colombiano: sta di fatto che è diventato uno dei biker di lunga distanza più forti al mondo.
«Sono a un punto ancora buono della mia carriera – racconta – perché prima di tutto mi piace ancora correre e mi diverto. Si può dire che questa sia la cosa più importante, finché mi diverto vado avanti. Lotto ancora per le prime posizioni, mi sento bene, cerco di fare il meglio. Sono stato in tante squadre, ma qui alla Soudal-Lee Cougan ho trovato una dimensione umana che mi piace. Ho persone che mi aiutano e tutto quello di cui ho bisogno».
Arrivasti in Europa giovanissimo…
Avevo vent’anni, è passato davvero tanto tempo. Non conoscevo l’ambiente della mountain bike in Europa. In Colombia si facevano poche gare, si correvano soprattutto dei cross country o comunque gare corte. All’inizio non fu facile, nel senso che la gente andava forte anche in discesa, mentre io ero abituato che in salita andavo via e poi la discesa me la gestivo tranquillo. Invece qua bisognava andare forte a salire e anche a scendere, infatti ho perso tante gare in discesa perché ero fermo. Poi piano piano mi sono abituato e alla fine ho raggiunto il livello dei più forti.
Hai cominciato in mountain bike, che rapporto avevi con la strada?
Ho sempre fatto mountain bike, ma soprattutto all’inizio ho fatto anche un po’ di strada in preparazione. Facevo entrambe. La prima bici che ho avuto fu una mountain bike e mi sono innamorato. Ho fatto un po’ di gare su strada. Ho corso un anno con una squadra colombiana, la Ebsa-Indeportes Boyacá.
Come ti parve?
Arrivai alla strada per via di un infortunio. In precedenza avevo partecipato al Clasico RCN e da ragazzino a due Vuelta de la Juventud. Mi trovai in mezzo a un anno un po’ difficile, perché a causa di una frattura sono stato per mesi senza correre. Così nella stagione successiva andai su strada. Scoprii che mi piaceva e avrei continuato volentieri. Solo che l’anno dopo la squadra cambiò gestione e non fu possibile andare avanti. Così me ne tornai alla mountain bike.
Qualcuno dice che saresti stato un ottimo stradista.
Eh sì, lo credo anch’io e penso che non ho avuto l’ingaggio giusto. Ho sempre fatto mountain bike, dovevo rischiare magari di continuare un anno su strada, provare e magari poteva andare meglio. Esattamente come Egan, no? Lui ha cominciato a fare mountain bike, poi ha trovato la squadra giusta, nel momento giusto della sua carriera e si vede adesso dov’è. Comunque sono contento di aver aperto la strada per altri atleti, forse anche per lui. Sono stato uno dei primi colombiani a venire in Italia per la mountain bike. Io ho continuato la mia carriera, altri hanno cambiato.
Ti senti un’ispirazione per i ragazzi colombiani?
Credo di sì. Tanti mi seguono e nel frattempo il mondo della mountain bike è cresciuto anche in Colombia e i giovani mi vedono come un riferimento. Magari sognano in un futuro di essere come me, mentre altri sognano di fare strada.
Vieni da Boyaca, terra di scalatori.
Esatto, vivo vicino a Maurizio Soler (il corridore colombiano, classe 1983, vinse la maglia a pois e una tappa al Tour del 2007, ma chiuse la carriera con un brutto infortunio al Giro di Svizzera del 2011, in seguito al quale rimase offeso, ndr). Mi spiace tanto per lui. Io ho cominciato un pochino dopo, siamo molti amici. Quando sono in Colombia lo incontro spesso, perché comunque passo quasi ogni giorno dove abita, così vado a trovarlo e lo saluto. E’ un po’ frustrante vederlo così, perché lui era un grande campione e poteva fare molto bene.
Tanti stradisti fanno avanti e indietro dalla Colombia, fanno altura prima delle grandi corse: per te è lo stesso?
Non proprio. Quelli della strada hanno la fortuna che le squadre gli permettono di andare e tornare. Io non riesco, non è così facile. Soprattutto perché corro quasi tutte le domeniche e non ho il tempo per staccare e andare a casa. Lo faccio magari a fine anno, se riesco metà a stagione.
Sei nato a 2.500 metri, riesci ad allenarti in altura qui in Europa?
Sì, a volte sì, magari prima dei grandi appuntamenti, come la Dolomiti Hero (Paez l’ha vinta per sette volte, ndr), faccio un po’ di altura. Oppure prima del mondiale. Magari vado a Livigno o sul Passo Pordoi.
Qual è la corsa che ti piace di più qua in Europa?
Mi sono innamorato e mi piacciono tutte le corse con più salita, tipo la Dolomiti Hero, la Dolomiti Superbike e gare mitiche che ho scoperto quando sono arrivato qui, tipo la Rampilonga o la 100 Chilometri dei Forti. Sono gare che hanno fatto la storia e mi sono rimaste nel cuore.
Quest’anno obiettivo mondiale?
Parto con l’obiettivo di fare bene nelle gare più importanti e soprattutto al mondiale, vorrei vincere il terzo (ha vinto i primi due nel 2019 e 2020, ndr) e fare meglio del 2022. E’ stato un mondiale strano, quest’anno in Scozia pare sia molto duro, vedremo che cosa sarò capace di fare…