Aveva 23 anni ed era professionista da due. Non vinceva dal campionato italiano under 23 del 2011 quando sull’arrivo di Melilli aveva fatto scoppiare in lacrime Fabio Aru. Matteo Trentin era stato inserito dalla Omega Pharma-Quick Step nella squadra del Tour 2013, accanto a compagni come Cavendish, Terpstra, Chavanel, Kwiatkowski e Tony Martin. Gente tosta, ma il ragazzino italiano cresciuto a strada e ciclocross nel Team Brilla non era da meno. E fu così che nel giorno di Lione, provocando quasi un infarto a Davide Bramati, prima si infilò nella fuga che sarebbe arrivata e poi vinse la tappa.
Prima vittoria da professionista al Tour de France. Ne andava così fiero che di tappe ne vinse altre due. Una l’anno dopo, battendo Sagan in volata a Nancy. E una nel 2019, vincendo a Gap. Mai una città banale nei Tour di Trentin, che si accinge ora a farvi ritorno con la Tudor Pro Cycling, dopo un anno di assenza.


Che cosa rappresenta il Tour per Matteo Trentin?
E’ la corsa più grande del mondo e anche la più importante. Quando come me hai avuto la fortuna e la bravura di vincere tappe nei tre Grandi Giri, ti rendi conto che il Tour sia proprio esponenzialmente più grande, con più gente rispetto a tutto il resto.
E’ così evidente anche dall’interno?
E’ una cosa che ti salta all’occhio subito. Quando vai in sala stampa per la conferenza, c’è una marea di persone. Al Giro e alla Vuelta sono pure tante, ma non così. E poi sono differenti, arrivano da tutto il mondo, mentre al Giro e alla Vuelta ci sono soprattutto gli europei.
Vincesti la prima tappa a 23 anni, eri professionista dall’anno precedente. Che cosa ricordi?
Mi ricordo tutto, perché le strade e i posti in cui vado mi restano tutti in testa. Pensate che pochi giorni fa con il Delfinato eravamo nell’hotel dove ero la sera prima di quella mia vittoria, a Saint Amand Montrond. Aveva vinto Cavendish, era stata la tappa dei ventagli e lui aveva fatto il panico a 120 chilometri dall’arrivo per far fuori Kittel. Poi erano saltati fuori quelli di classifica e io rimasi fuori dal ventaglio della Saxo Bank di Contador, per fare fuori Froome. Arrivai con lui a più di un minuto, forse perché mi ero messo in fondo al gruppo pensando ai fatti miei.


Un brutto colpo per uno cresciuto al Nord…
Infatti andai a letto dicendomi che il giorno dopo sarei andato in fuga. Ci andai e vinsi.
Si dice che oggi vincano tanto i corridori molto giovani, eri comunque un debuttante al Tour e vincesti a 23 anni…
Vincevano i giovani anche allora, magari non tanto come adesso. Soprattutto perché ne fanno passare così tanti che ormai in gruppo ci sono soltanto i ragazzini e gli anziani sono spariti. Insomma, anche per la legge dei grandi numeri, sono più loro che noi.
La seconda tappa, l’anno dopo la vincesti con una volatona di gruppo. Secondo arrivò Sagan in maglia verde…
Il gruppo si era un po’ sgretolato, perché c’era una salita poco più lunga di un chilometro entrando nel finale. Ci fu anche una caduta in fondo alla discesa, per cui penso che fossimo non più di 40 corridori. La volata venne molto bene, a volte sapevo fare grandi cose.
Infine la terza vittoria di tappa a Gap da campione europeo, su un percorso con tante salite, avendo anche cambiato squadra: dalla Quick Step alla Mitchelton-Scott.
Diciamo che era l’ultima disponibile. Ero arrivato vicino a vincere la tappa in altre occasioni. A Colmar, a Saint Etienne e anche a Bagneres de Bigorre sui Pirenei, che era anche dura. Un po’ mi fregò Simon Yates, che allora era mio compagno di squadra. Io ero davanti in fuga da solo e lui dietro tirava. Venne a prendermi, poi vinse la tappa e… niente.


Perché Gap era l’ultima disponibile?
Perché poi c’erano solamente Valloire, Tignes e Val Thorens e l’arrivo a Parigi. Sicuramente ci sarebbe stata una fuga, quindi dovevo semplicemente agganciarmi e poi giocarmela al meglio. Sono stato anche bravo, perché arrivai da solo, staccando Asgreen e prima ancora il gruppetto con Van Avermaet e anche Daniel Oss.
Visto che ricordi strade e luoghi, hai familiarità con i posti del ciclismo in Francia?
Ma sapete che dopo un po’ di anni, ti accorgi che più o meno le strade sono sempre quelle? Tornando al discorso de “La strada non è nostra”, bisogna riuscire a passare dove hanno l’abitudine a vederti. Alla fine della fiera, tra Parigi-Nizza, Definato e Tour, tante volte ti accorgi che passi veramente negli stessi posti. O comunque, dovendo raggiungere due punti sulla mappa in una determinata regione, il più delle volte si usa la stessa strada. E’ anche comprensibile, perché facendo così magari gli organizzatori hanno meno difficoltà di chiedere chiusure di cui non sono sicuri.
Dopo tanti anni che lo frequenti, pensi di avere col Tour un rapporto particolare?
Speriamo, speriamo anche di farlo funzionare. Quando abbiamo fatto i programmi, prima c’era la parte delle classiche, poi ho iniziato a concentrarmi sul Tour. Venendo da una squadra un po’ più piccola, dove comunque c’è bisogno di esperienza in corse così grandi e di persone solide che magari un paio di Grandi Giri li hanno finiti, è stato un po’ più facile entrare a far parte dei papabili per il Tour. Rispetto magari a squadre dove i corridori sono tanti e la lunga lista del Tour era ancora di 15 corridori alla partenza del Delfinato.


L’ambizione è sempre quella, oppure proprio per il fatto che sei in una piccola squadra, avrai un altro ruolo?
L’ambizione è sempre quella di andare per le tappe, quindi devi essere pronto a giocartele ogni volta che si presenta la possibilità. Però non ho la pelle d’oca come la prima volta, so cosa mi aspetta. Sarà diverso forse per i giovani della squadra. Non so ancora i nomi di tutti quelli che saranno in Francia. Però posso dire che abbiamo fatto il Delfinato e a quelli che non lo avevano mai corso ho detto: «Ragazzi, preparatevi, perché qua vi accorgerete di cosa sia il ciclismo. Qua si va veramente forte!».
E’ vero che al Delfinato si va più forte che al Tour?
Dipende dalle giornate e dalle annate. Ritorna il discorso dei trials interni per far vedere alla squadra che ti meriti il posto al Tour. In più quest’anno la Visma e la UAE si sono messe a voler vedere chi è più forte, per cui abbiamo avuto tappe sempre tirate.
Come hai visto il tre del podio 2024?
Mi sembra che stiano bene tutti quanti. Evenepoel ha faticato un po’ sulle salite, ma a crono li ha suonati come tamburi. Preferisco concentrarmi su di me. Per cui ora farò gli italiani, poi tornerò a casa un altro paio di giorni e poi finalmente si torna al Tour.