Nel nome del padre: Christophe Sercu parla di papà Patrick

26.11.2023
6 min
Salva

Patrick Sercu è stato un gigante della pista e un grande anche della strada. E alla sua epoca, la seconda metà degli anni ’60 e ’70, non era facile finire sulle prime pagine avendo fra i propri connazionali campioni come Merckx e De Vlaeminck, eppure Sercu ci riusciva. E ci riusciva soprattutto in pista e passando dalle Sei Giorni, di cui è tutt’oggi il Re. Il Re delle Sei Giorni: ne ha vinte ben 88.

Christophe Sercu è suo figlio. Oggi cinquantenne, è cresciuto a pane e ciclismo, e raccoglie l’eredità del papà. E’ infatti l’organizzatore della Sei Giorni di Gand, nonché il team manager del Team Flanders-Baloise, squadra professional che lavora molto con i giovani.

Christophe, partiamo dalla Sei Giorni di Gand, ormai l’unica vera Sei Giorni: qual è il segreto?

Questo ci fa piacere, ma purtroppo è l’ultima vera Sei Giorni perché l’unica altra rimasta è quella di Rotterdam. Posso solo dire: speriamo bene per il futuro. Qual è il segreto di questa? Un insieme di cose: la sua vitalità, la sua tradizione, un buon pubblico, un’organizzazione collaudata e degli ottimi corridori.

La corsa gioca ancora un ruolo centrale qui?

Direi di sì, anche per questo la gente rimane fino a tardi. Qui si incontrano amici, ci si beve una birra e si guardano le gare: abbiamo un buon equilibrio tra tutto questo e penso che sia il segreto del nostro successo.

Il ciclismo è un affare di famiglia per lei. E’ stato naturale prendere l’eredità di suo padre?

Mio papà ha sempre corso qui. Qui ha avuto successo come corridore, prima, e come organizzatore poi. Io, che gli sono sempre stato vicino, di fatto sono dentro questa organizzazione da 40 anni, da quando ero un bambino, quindi ben prima della malattia e poi della morte di mio padre (avvenuta nel 2019, ndr). Abbiamo continuato a lavorare allo stesso modo, ma abbiamo anche modernizzato il tutto. Credo che si debba andare di pari passo col proprio tempo, ma anche rispettare le tradizioni.

Ha citato suo padre, iniziamo a parlare di lui, di Patrick. Qual è il ricordo ciclistico più importante che ha?

Oh, non è facile dirlo! Ne ho moltissimi, ma sono anche lontani. Avevo 12-13 anni quando lui ha smesso di correre, ci dovrei pensare un bel po’. Però c’è una foto a casa che vedo spesso ed è un bellissimo scatto della sua ultima Sei Giorni di Milano ed io ero lì con lui. Questa foto ci ritrae da dietro, mentre lasciavamo la pista. E lui mi mette un braccio sulle spalle. Un bel ricordo. Simbolico.

Le ultime apparizioni di Patrick Sercu su pista risalgono al 1982
Le ultime apparizioni di Patrick Sercu su pista risalgono al 1982
Tra le Sei Giorni d’inverno e la strada nel resto della stagione, non era molto presente a casa suo padre… Cosa ricorda di quel tempo?

In effetti mancava moltissimo, ci sono state stagioni in cui ha fatto anche più di 200 giorni di competizione in un anno. Lo vedevamo poco, ma cercava di essere presente lo stesso.

Sentirsi non era facile come oggi? Come facevate?

Eh sì – sorride Sercu – in effetti era un bel problema. Ricordo che si doveva prendere appuntamento, quando era all’estero. Dovevi farti passare una linea dall’operatore per quel giorno a quell’ora. Si pagava un bel po’ e si aveva a disposizione un certo numero di minuti.

Immaginiamo che in casa vostra ci sia stato un certo via vai di campioni…

Ne ricordo molti, ma non erano solo corridori quelli che venivano a casa. Erano dei buoni amici. Penso ad Eddy (Merckx, ndr), a Roger (De Vlaeminck, ndr), a Martin Van Den Bossche. Però quando sei piccolo non hai la sensazione di avere di fronte dei campioni di quel calibro.

Suo papà ha corso con grandi corridori ce n’è qualcuno con cui era più legato?

Difficile dire questo o quello. Diciamo che in gruppo aveva molti amici.

Cambiava la sua personalità, il suo carattere, quando era in bici e quando invece era a casa?

Un po’ penso di sì, come tutti i corridori del resto. Ma per quel che mi riguarda lui era lo stesso, il suo carattere non cambiava una volta giù dalla bici. Era sempre una persona civile. Dire che in bici era aggressivo non è la parola giusta forse, ma di certo era molto motivato. 

Due miti in una foto: Eddy Merckx e Patrick Sercu
Due miti in una foto: Eddy Merckx e Patrick Sercu
E tra strada e pista? C’era più agonismo in lui sul parquet… visto il suo palmares?

No, no… Strada o pista era sempre molto determinato. Un grande corridore è sempre professionale.

Quando eravate a casa parlavate mai di ciclismo?

Sì, certo. Si parlava di gare. Successivamente è diventato cittì della squadra nazionale, poi ancora capo dell’organizzazione di questa Sei Giorni. Ma in generale ho avuto l’opportunità di viaggiare molto con lui dopo la sua carriera e il ciclismo c’è sempre stato in tutti noi.

Rispetto ai tempi di suo padre in cosa sono più cambiate le Sei Giorni?

Credo nell’americana. In passato queste corse erano più lunghe. Chi faceva questa specialità era davvero bravo. Alla fine si facevano 200 chilometri al giorno in pista. Si facevano anche altre gare, come quella a cronometro, ma bisognava fare i conti con le mode, con le richieste. E queste erano americane, americane, americane… Poi man mano le cose sono cambiate. Prima s’iniziava alle sei del pomeriggio e si finiva alle tre, anche le quattro di notte. Ora tutto è più corto, ci sono altre tempistiche e altri interessi.

Su strada, Sercu ha ottenuto la sua prima vittoria in Italia: l’ultima tappa della Tirreno del 1969
Su strada, Sercu ha ottenuto la sua prima vittoria in Italia: l’ultima tappa della Tirreno del 1969

Sercu e l’Italia

Patrick Sercu dunque è stato un grande, un gigante del ciclismo belga. E lì non è facile stare tra i giganti. Su pista ha vinto un’Olimpiade (Tokyo 1964) nel chilometro da fermo, 88 Sei Giorni come detto, ma anche tre titoli iridati e una trentina di campionati nazionali.

E anche su strada ha un palmares importantissimo, tanto più che ha corso spesso in supporto di Eddy Merckx. Patrick Sercu era un velocista chiaramente viste le sue doti in pista. Pensate: 13 tappe al Giro d’Italia, sei al Tour con tanto di maglia verde nel 1974.

Prima di congedarci, giusto ricordando questi numeri lo stesso Christophe, con un grande ed onorato sorriso ha aggiunto: «Quanto tempo ha passato mio papà in Italia. Ci ha corso molto: Faema, Brooklyn e anche se era belga nella Fiat… considerava l’Italia la sua seconda casa. Veramente. Lo diceva spesso».