L’11 ottobre del 1998 era di domenica. I mondiali juniores si correvano a Valkenburg e nella prova su strada degli juniores, un irlandese poco noto di nome Mark Scanlon si lasciò alle spalle Filippo Pozzato (foto di apertura). Il vicentino era convinto di vincere e non la prese affatto bene, per cui sul podio si mise in faccia il grugno migliore e ascoltò l’inno del vincitore come una marcia funebre. Aveva già conquistato il podio nella crono, terzo dietro Cancellara e Hieckmann, per cui il secondo piazzamento in pochi giorni gli parve insostenibile. Quando di questo si accorsero Davide Balboni e Antonio Fusi, tecnico di categoria e responsabile delle nazionali giovanili, Pozzato venne richiamato all’ordine perché non era possibile che un secondo posto venisse accolto come una sconfitta. Negli juniores si corre per fare esperienza e qualunque risultato va preso e analizzato, per farne tesoro la volta successiva.
Una vecchia casa (gloriosa)
Ventitré anni dopo, agli europei di Trento, è successo qualcosa che a suo modo ci ha riportato a quel giorno. Solo che in questo caso la parte dell’infuriato l’ha recitata il tecnico della nazionale, che ha puntato il dito contro i corridori e la loro passività. La storia è nota, ne stiamo discutendo da quel giorno, e ci permette di proseguire nell’analisi.
Il ciclismo italiano è come una gloriosa casa di campagna, costruita di pietra antica. E’ andata bene per decenni, ma quando si è trattato di ristrutturarla e adeguarla alle nuove normative tecniche, anziché ragionare su come farlo in modo duraturo e organico, si è cominciato ad aggiungere accessori e piani, senza sincerarsi che la struttura fosse in grado di sorreggerne il peso e fosse completamente compatibile.
Fusi, discepolo di Zenoni, programmava l’avvicinamento della nazionale alle gare Tecnico azzurro fino a Barcellona 1992, Zenoni ha poi lasciato le nazionali. Qui con Casagrande
Idee chiare
Il passo indietro è stato evidente, ma forse è visibile soltanto a chi c’era anche prima. Siamo passati da una nazionale presente e capace di coinvolgere le società, gestendo la preparazione degli atleti convocati, a una nazionale che non si intromette. L’ha raccontato bene ieri Luca Colombo. Zenoni, ha detto, e Fusi dopo di lui seguivano le corse in moto, prendevano appunti, sceglievano, si formavano un’idea e la portavano avanti sino in fondo. Nessuno era a favore di Gualdi nel 1990 in Giappone, ma Gualdi divenne campione del mondo. Nessuno avrebbe lasciato a casa Bartoli per fare posto a Casartelli a Barcellona 1992, ma Fabio divenne campione olimpico. Nessuno nel quartetto avrebbe tolto di mezzo lo stesso Colombo a Oslo 1993, ma Fusi inserì Fina e vinse il mondiale con la Cento Chilometri.
Ai mondiali di Verona nel 1999, Nibali fece una grande crono e conquistò il bronzo Il bronzo nella crono U23 segue quello del 2002 fra gli juniores
Ai mondiali di Verona nel 1999, Nibali fece una grande crono e conquistò il bronzo Il bronzo nella crono U23 segue quello del 2002 fra gli juniores
Selezionare non basta
Il cambiamento lo vollero il presidente Di Rocco e i suoi consulenti tecnici a partire dal 2005. Non più tecnici giovanili che preparano, bensì largo ai selezionatori. Così dai tempi di Zenoni e Fusi, capaci anche di porre un argine all’eccesso di attività dei più giovani con provvidenziali raduni in altura, si è lasciato tutto in mano alle squadre. Si fissa la data e sta a loro portarceli tirati a lucido. Ma come? Sono iniziati gli eccessi, il conteggio delle vittorie, l’abuso tecnologico e la gestione smodata di talenti che arrivano al professionismo già spremuti.
Nibali fu il risultato della prima gestione, che lo accompagnò longitudinalmente dagli juniores agli under 23 e poi al professionismo. Oggi non c’è regia. Si formano le squadre e si va alle corse senza alcuna garanzia tecnica che andrà bene. Qualcuno in tutto questo ha davanti agli occhi un progetto a lungo termine per i ragazzi che vestono l’azzurro sin dagli juniores?