Santiago del Cile è diventato provincia d’Italia. Prima con l’oro del quartetto femminile e poi con l’esultanza di quelle stesse ragazze alla balaustra per celebrare il terzo oro nell’eliminazione di Elia Viviani all‘ultima corsa. Le braccia incrociate per significare che il dado è tratto mentre girava in pista hanno dato l’esatta dimensione di una vittoria che ricorda quella di Cancellara nella crono di Rio 2016. Elia Viviani voleva chiudere con una medaglia in pista e porterà a casa un’altra maglia iridata, il modo più bello per dire basta e andarsene senza rimpiangere di non averci provato per l’ultima volta.
«L’anno scorso – racconta – quando ancora cercavo squadra a febbraio, era questo che intendevo. Volevo dimostrare di essere ancora al livello di poter vincere su strada e l’ho fatto. Essere in un Grande Giro e comportarmi bene, come ho fatto alla Vuelta. Chiudere la mia carriera con un mondiale, con una maglia iridata addosso, è qualcosa di fantastico. Mi ritiro dal top, è quello che volevo e che speravo. Quindi sì, possiamo davvero dire che questo è il finale perfetto».


Nervoso prima del via
Ha corso da campione, ammettendo di aver conosciuto prima del via un insolito nervosismo. Poi in gara tutto ha funzionato come doveva e lo sprint finale non ha avuto storia, al punto da potersi rialzare ben prima della riga, indicando l’avvicinamento alla vittoria. Con Elia è esplosa la gioia di tutto il parterre azzurro. Anzi, è parsa superiore la voglia di celebrare dei suoi compagni, vestiti con la maglia intitolata The Last Dance del Profeta. Dio solo sa però quante emozioni aveva dentro Viviani durante quei giri da campione del mondo.
«Continuo a ripetere che il mio più grande orgoglio – dice – è proprio aver creato questo movimento insieme a Marco Villa e a tutti quelli che hanno lavorato per portare tutte queste medaglie e campioni al ciclismo su pista. Mi sento di dirgli di credere nei sogni, di puntare in alto perché lavorando duro ci si arriva, proprio come ho fatto io. Crederci e sognare in grande perché solo così si raggiungono i grandi risultati. Abbiamo visto che dopo di me sono arrivate tante medaglie dalle ragazze. L’oro olimpico della madison, il quartetto che è stato l’apoteosi degli ultimi anni. E altri ragazzi continuano ad arrivare.
«Salvoldi ha curato bene il movimento giovanile, le ragazze di Villa e Bragato sono giovani e portano ancora tanti risultati. Abbiamo un bel futuro davanti e soprattutto ora abbiamo una struttura, abbiamo una Federazione che ci crede e che lavora per questo. Sicuramente c’è sempre del lavoro da fare nelle categorie giovanili e cercheremo di farlo».
In quel plurale c’è forse un assaggio del suo futuro, che non aveva escluso nell’incontro con i media prima di partire per il Cile. Per ora il suo orizzonte è la cena con tutta la nazionale e poi le meritate vacanze con Elena Cecchini, volata in Cile per sostenerlo nell’ultima battaglia. Da stasera sarà soltanto lei il corridore di casa, ma è dolce per Elia Viviani ritirarsi portando nel cuore l’ultimo oro e la sensazione di essersene andato da vincitore.





Le somme di Salvoldi
Il conteggio finale di Dino Salvoldi, partito per il Cile senza farsi grandi illusioni, è molto più roseo ora che i mondiali si sono conclusi.
«Il bilancio di questi mondiali – ragiona Dino Salvoldi, cittì degli uomini – si conclude come meglio non si poteva. Con una vittoria emozionante di Elia, una vittoria di gran classe. E come ultima gara, nella madison con due ragazzi del 2005 in un gruppo di mostri della specialità, avevamo l’obiettivo di portarla a termine e migliorare la tecnica. Ci siamo riusciti, anche se abbiamo visto come e dove dobbiamo lavorare, dove sono i margini di miglioramento. Però sono soddisfatto, bravi anche a Stella e a Sierra.
«Per quello che riguarda i giorni precedenti, il discorso sarebbe fin troppo lungo. Sinteticamente posso dire che torniamo con un po’ di rammarico nell’inseguimento a squadre e in quello individuale. Siamo arrivati molto molto vicini alla medaglia di bronzo, pur con la consapevolezza prima di partire di avere un gap che sul campo si è dimostrato meno ampio di quello che pensavamo e quindi possiamo essere ottimisti. Abbiamo corso con ragazzi molto giovani come Grimod e Sierra. Bisogna avere il coraggio di schierarli e di prepararli con la giusta umiltà e serenità. Però se non gli creiamo l’opportunità di una prima volta e la rimandiamo nel tempo, ci troviamo con atleti maturi senza l’esperienza internazionale e quindi il gap rimarrà tale».