Roberto Amadio in questi giorni si sta alternando tra il lavoro per la Federazione, i risultati ottenuti e le gare che si stanno correndo. In pista la campagna di Apeldoorn e Anadia ha regalato tanti successi, mentre alla Vuelta i nostri atleti si stanno facendo vedere con insistenza. Poi c’è il Tour de l’Avenir, che da ieri è entrato nelle due giornate più dure con le tappe di montagna (in apertura foto Instagram/Tour de l’Avenir).
«I nomi ci sono – ci anticipa il team manager della Federazione – basta guardare i risultati ottenuti alla Vuelta e prima. La pista si è confermato uno dei fiori all’occhiello del nostro movimento, e anche tra gli under 23 e gli juniores siamo messi bene. Sento parlare di crisi del ciclismo giovanile italiano, dipende da quale punto di vista si guarda il tutto».


Devo team
La riflessione di Amadio anticipa le nostre domande, così ci troviamo subito la strada aperta per instaurare un discorso partito nei giorni del Giro Next Gen e che fa seguito all’editoriale uscito lunedì 25 agosto. Lo spunto per iniziare a parlare di tutto questo arrivò con le parole di Roberto Bressan nel pomeriggio in cui Jakob Omrzel, sloveno del team Bahrain Victorious Development (ex CFT Friuli), ha vinto il Giro Next Gen. «Per noi del CTF – ci disse – diventare devo team era ormai un passo necessario per non scomparire».
«E’ una rivoluzione – commenta Amadio – nata dall’UCI, organo che sta al di sopra delle varie Federazioni nazionali. L’avvento dei team WorldTour e dei devo team è stato un passaggio fondamentale nell’evoluzione del ciclismo. Il fatto che le squadre di vertice possano avere la loro formazione continental (di fatto questo è un devo team, ndr) e che si possano scambiare i corridori ha reso difficile la vita ai nostri team continental che non hanno questa possibilità di sbocco».


Un ragazzo è attratto dall’idea di correre nei devo team…
E’ normale sia così, per ambizioni e per occasioni. Ma questo è un discorso che ha investito tutte le Federazioni. L’Italia è stata maggiormente colpita da tale processo perché ha un sistema basato su formazioni nazionali e regionali. In qualche modo anche Francia e Spagna avevano un sistema simile al nostro.
Con l’eccezione di avere team WorldTour?
Questo fa un’enorme differenza. La Francia ha cinque squadre al massimo livello tra i professionisti, e ognuna di loro ha un devo team. Praticamente hanno più posti che corridori. Quello che è mancato a noi è avere una formazione WorldTour capace di costruire un sistema di sviluppo appetibile. I nostri ragazzi vanno all’estero, non li perdiamo ma sicuramente diventa difficile seguirli. La Federazione però ha fatto tanto.




In che modo?
A livello juniores e under 23 proponiamo un calendario internazionale importante nel quale corriamo gran parte delle prove di Nations Cup. Oltre a fare attività è anche un modo per permettere ai nostri atleti di correre gare di primo livello. Non è facile riuscire a coordinare il lavoro insieme agli altri team.
Anche perché ci si trova a parlare con squadre di altri Paesi che non hanno a cuore l’interesse della nostra Federazione.
Certamente con loro (i devo team, ndr) il dialogo diventa difficile. Ci troviamo a parlare con tante teste diverse e organizzare gli impegni in modo da avere i corridori è sempre più complicato, in particolare con gli under 23. Per quanto riguarda gli juniores il dialogo è più facile.


Il rischio è che il prossimo salto porti all’indebolimento delle Federazioni, si dice che dal 2026 il Tour de l’Avenir diventerà una gara per team.
Noi ci auguriamo di no, questo potrebbe portare a un minor numero di atleti italiani al via. Magari rimarrà lo stesso ma non avranno modo di correre da protagonisti. Servirebbe rafforzare le nostre squadre, ad esempio la scelta di Bevilacqua (MBH Bank-Ballan-CSB, ndr) di diventare professional è lodevole. Non essendo un devo team e non riuscendo ad attrarre corridori di primo livello hanno deciso di fare un salto importante.
MBH Bank, Biesse-Carrera, CTF, sono squadre che hanno fatto un salto grazie a investimenti stranieri. Da fuori vedono le nostre qualità e investono, da dentro questa cosa non arriva.
Manca la volontà di investire, deve muoversi qualcosa anche a livello politico. Anzi, soprattutto a livello politico. E’ un problema che attanaglia tutto il sistema sport in Italia, serve una politica di defiscalizzazione. Senza questa, e con la crisi economica che viviamo, è difficile pensare a un progetto a lungo termine.




Stiamo vivendo la stessa cosa di qualche decennio fa: gli sponsor scappano.
Negli anni 2000 avevamo undici formazioni di alto livello e bastavano budget da 5 o 6 milioni di euro. Quando la spesa si è alzata sono spariti gli investimenti. La stessa cosa la vivono ora le formazioni continental. Qualche anno fa serviva 1 milione di euro per fare una squadra, ora il prezzo è raddoppiato.
Serve chi riesca a mettere tutti sotto lo stesso tetto?
Serve che le varie Federazioni e il CONI trovino un modo per aumentare gli investimenti e le sponsorizzazioni. Inoltre la nuova legge sulle ASD ha sì regolarizzato tutto ma ha peggiorato la qualità della vita alle piccole realtà che vivevano di volontariato. Il tema centrale è questo, attrarre risorse.