In cima c’è Merckx, con le cinque vittorie. Poi nell’albo d’oro della Liegi, a quota quattro ci sono un italiano e uno spagnolo: Argentin e Valverde. L’ultima del veneziano porta la data del 1991 e dopo di allora, Moreno fece in tempo a centrare anche il quinto posto del 1993, alla vigilia dell’anno del suo ritiro. Classe 1960, smise a 34 anni, senza fare come Cavendish che per vincere la tappa che gli manca per il record di Merckx al Tour, ha trovato a 37 anni il contratto con l’Astana.
«In realtà – racconta Argentin – a quel record non ci ho mai pensato. Se fosse stato una priorità, avrei provato magari qualche anno in più, perché come avete detto, ho fatto anche dei piazzamenti. Però, insomma, essere secondo non è una vergogna, anzi è un orgoglio. Eddy è un grande, molto più di certi italiani che nel conto delle loro vittorie mettono anche i circuiti a pagamento. Cominciamo a togliere le decine di vittorie combinate e poi di certi record riparliamo… ».


Per uno come te che è stato grande al Nord e che oltre alle 4 Liegi, ha 3 Freccia Vallone e anche il Fiandre, quando arriva questo periodo, torna fuori qualche prurito?
E’ passato tanto tempo, ovviamente il prurito ce l’ho avuto i primi anni. Avevo ancora la smania di essere lì, anche se non ero più allenato. Ormai vediamo tutto con una lente di ingrandimento, ma non ho più lo sguardo del corridore che le ha fatte. Solo una sensazione non va via…
Di cosa si tratta?
L’unica emozione, anche se non so se sia un’emozione, è quando li vedo cadere e ultimamente cadono spesso. Mi vengono i brividi, come se io fossi là: sento la carne che si strappa. La sensazione come se a scivolare sull’asfalto, ci fossi io al posto loro. Ecco, questa mi rimane ancora. Sento il dolore, per un attimo mi vengono i brividi. Penso a quello che provano loro. Insomma, fanno di quelle cadute certe volte…
Quando li vedi attaccare, magari sullo Stockeu o la Redoute, le gambe cosa dicono?
Oggi niente. Allora il mal di gambe, quando andavi forte, non lo sentivi. Sentivi i dolori da stanchezza, più che altro. Però c’era la voglia di tenere comunque. Lo Stockeu era una salita a metà percorso, in cui iniziavano a fare la prima selezione. Si entrava nel vivo della corsa, ma non si impiegava tanto a lasciarselo dietro. Lo Stockeu è uno strappo breve, non è che senti il mal di gambe come fosse una salita da 20 chilometri. Finiva presto, poi iniziava la discesa e si recuperava. Io avevo questa caratteristica.


Dopo aver corso per 10 volte la Liegi e averne vinte quattro, se chiudi gli occhi, ricordi ogni passaggio?
Mi ricordo le strade e forse ancora di più gli episodi. Quando magari inseguivi perché il gruppo si era rotto oppure eri davanti e controllavi la situazione. Mi ricordo che dopo lo Stockeu, quando venivi giù scendevi in paese a tutta, trovavi il pavé, poi iniziava subito l’altra salita, la Haute Levée. In quella doppietta di cote, i miei mi portavano davanti. Dovevi per forza fare la salita davanti per stare lontano dai pericoli. Anche se lo Stockeu ancora è lontano.
Qual era la tua cote preferita?
Ovviamente era la Redoute, quella che mi è rimasta più nella mente. Anche se non è proprio bellissima, perché si va fuori dal paese e passi vicino all’autostrada, poi la pendenza cresce sempre di più. Alla fine gli davi la stoccata in cima e si rimaneva in pochi. Oddio, se non scattavo io, comunque gli andavo dietro, perché tante volte è successo anche così.
Detta così la fai sembrare facile…
La Liegi è sempre stata una corsa un po’ controllata e dal punto di vista tattico abbastanza semplice. Bastava star davanti, non staccarsi e andar dietro ai vari Criquielion oppure Van der Poel che scattavano e a tutti gli avversari che mi sono ritrovato nelle varie edizioni.


La preferita?
La terza, la più rocambolesca: quella del 1987 (foto di apertura, ndr). Facevamo la salita dell’Università dopo aver passato la Redoute e Sprimont, che non era questa grande salita. Però alla fine, andando forte faceva la differenza anche questa. E mi ricordo che dovetti mollare perché mi avevano un po’ messo in croce. Avevo mal di gambe e crampi, non riuscivo più a reagire. In un primo momento fui abbastanza freddo da lasciarli andare, cercando di ritrovare un po’ di gambe. E poi mi è andata bene, perché loro hanno iniziato a guardarsi e io li ho rimontati. C’era Yvon Madiot, il francese fratello di Marc quarto all’arrivo, che dopo il traguardo mi venne vicino, battendomi la mano sulle spalle: «E così avevi i crampi?».
Invece la Freccia ti piaceva?
Il motivo per cui non ho mai fatto la Roubaix è che il mercoledì, quindi tre giorni dopo, si correva la Freccia Vallone. Mi tenevo per le mie corse, che erano appunto la Freccia, la Liegi e poi l’Amstel che si faceva la domenica dopo. Quelli che venivano a fare la Freccia e provenivano dalla Roubaix erano distrutti. La Freccia Vallone aveva qualche chilometro in meno, però era tutta piena di strappi. Io in quei territori ho costruito la mia carriera, soprattutto sulle Ardenne, anche se poi venne pure il Fiandre. Evidentemente il percorso si adattava alle mie caratteristiche di scattista e ne ho tratto beneficio. Soprattutto quando spostarono l’arrivo in cima al Muro d’Huy, mentre i primi tempi era già a Spa.
La terza che vincesti fu quella della fuga a tre con Berzin e Furlan.
Neanche volevamo attaccare, ma la squadra ci portò davanti all’attacco del secondo Muro e quando in cima ci voltammo e vedemmo che non c’era dietro nessuno, tirammo dritto.


Tre giorni dopo la tua Freccia Vallone, Berzin vinse la Liegi. Come fisionomia ricordava l’Evenepoel di oggi?
Era piccolotto, robusto: stagno, come si dice da noi. Però quando dava le sue stilettate non era facile stargli dietro...
Veniamo un po’ al presente: come procede l’organizzazione della Adriatica Ionica Race?
Stiamo lavorando per le tappe, spaziando tra Marche, Umbria, Abruzzo, Basilicata e Reggio Calabria. Le ultime due saranno in Puglia e spero proprio che quest’anno si possa fare un’edizione della Adriatica Ionica Race al Sud, arrivando finalmente allo Ionio. Dobbiamo sempre aspettare la fine dei giochi del Giro d’Italia, perché prima vengono quelle trattative e poi, dove resta spazio, andiamo noi. Le risorse non te le tirano dietro e io non ho nessuna intenzione di organizzare tanto per farlo. Per fare un prodotto di qualità devi anche investire, ma abbiamo problemi con la Lega Ciclismo. Non si vede un gran disegno, abbiamo ancora problemi con i diritti televisivi e chissà se saranno risolti.


Che problemi vedi?
Non so quali siano i ragionamenti che hanno fatto, ma hanno sbagliato tutto perché se non dai a tutti lo stesso contratto, saremo sempre divisi. L’unico collante che abbiamo è la produzione televisiva. Se dai le stesse cose, il collante diciamo che è efficace. Altrimenti ognuno va per i fatti propri, come sta accadendo. Il Commissario Straordinario sta gestendo la Lega Ciclismo come se ne fosse il presidente, mentre dovrebbe solo portarci alle elezioni. Siamo sicuri che così le corse rinasceranno?