Cauberg, Muro d’Huy e Redoute, Bartoli spiega (e racconta)

20.04.2025
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Archiviate le corse di pavé e muri, si passa a quelle delle cotes. La Freccia del Brabante ha fatto da ponte, ma da oggi in poi con l’Amstel Gold Race si entra nel regno delle Ardenne. Salite un po’ più lunghe, ma comunque esplosive, di quelle in cui lo spettacolo viene quasi da sé… e in questa era di fenomeni non ne parliamo! Invece delle cotes e di queste strade ardennesi, ne parliamo eccome. E lo facciamo con un campione che lassù non si è solo fatto valere, ma più di qualche volta è stato dominatore: Michele Bartoli.

Con il toscano si parla delle salite simbolo delle tre classiche che mancano per chiudere la campagna del Nord: il Cauberg dell’Amstel, il Muro d’Huy della Freccia Vallone e la Redoute della Liegi-Bastogne-Liegi.

L’imbocco del Cauberg, siamo a Valkenburg, cittadina nel sud dell’Olanda non lontana da Liegi
L’imbocco del Cauberg, siamo a Valkenburg, cittadina nel sud dell’Olanda non lontana da Liegi

Il Cauberg

Il Cauberg è la rampa di lancio quasi sempre decisiva dell’Amstel Gold Race e simbolo, forse, di un’intera terra: Valkenburg. Qui si sono scritte anche pagine iridate e sempre qui andò in scena il famoso “ammutinamento” di Bartali e Coppi che, al mondiale del 1948, per controllarsi a vicenda arrivarono staccatissimi nelle retrovie. I due rimediarono una sonora squalifica da parte dell’allora UVI, antesignana della FCI. Ma torniamo ai nostri tempi e cediamo la parola a Bartoli.

Michele, partiamo dal Cauberg…

In effetti è un simbolo di una zona e non solo di una corsa, come per noi toscani il Monte Serra!

Puoi descriverci la salita?

E’ una salita con buone pendenze ed esplosiva. In realtà non possiamo neanche chiamarla salita, perché le salite vere sono quelle dove serve essere scalatori. No, qui parliamo di un’altra tipologia: strappi, cotes, chiamateli come volete, dove bisogna essere atleti veloci, esplosivi e anche potenti. E’ una salita particolare, più vicina al Fiandre. Per fare un esempio: è più adatta a Van der Poel che a Vingegaard. Non ho detto Pogacar perché per lui vanno bene tutte!

La strada com’è?

E’ molto ampia e la pendenza è abbastanza regolare: nel tratto duro sta attorno al 12 per cento. In tutto dura poco più di un chilometro e poi inizia un lungo falsopiano dove si troverà l’arrivo dell’Amstel. E’ selettiva, perché fatta nel finale riesce a fare la differenza. Tutti tengono duro nel primo tratto per non rimanere staccati, però poi, se inizia a mancarti la gamba, la velocità nel punto dove spiana può essere molto differente tra chi ne ha e chi no.

E a livello di ambiente?

E’ la salita dove c’è più presenza di tifosi all’Amstel: tantissimi. C’è un gran tifo quando si passa dentro Valkenburg e si inizia a salire.

Quando l’hai fatta tu, con che rapporti si affrontava?

Se programmavi un attacco, potevi farla anche con il 53 da sotto: all’epoca 53×19 o 21. Dietro si iniziava già a usare il 23, anche il 25. Adesso con il 54 e le scale posteriori che arrivano al 34 non hai problemi. In una corsa come l’Amstel, il 54 se vuoi non lo togli mai.

Qual è il tuo ricordo del Cauberg?

Che l’aspettavo… molte volte con ansia! Era l’ultimo trampolino di lancio per fare una selezione definitiva. Quindi lo vivevi con uno stato d’animo di attesa vera.

C’era un punto preciso dove attaccare o si seguiva l’andamento della corsa?

Vedevi un po’ gli avversari, come si muovevano. Magari se notavi qualcuno in difficoltà potevi decidere di anticipare. Altrimenti, se c’erano squadre che tiravano, aspettavi il finale. Sono salite brevi in cui devi decidere al momento, in base al comportamento del gruppo, a meno che non si prepari un attacco con tutta la squadra. Ai miei tempi, invece, se avevi un compagno nel primo gruppetto era già un lusso. Cercavi di usarlo in modo diverso, non per una tirata di 200 metri. Invece oggi, se prepari un attacco, puoi farlo in grande stile anche sul Cauberg.

L’azione di Pogacar sul Muro d’Huy nel 2023. Siamo all’uscita dei tornanti, dove si supera per qualche metro il 25 per cento di pendenza
L’azione di Pogacar sul Muro d’Huy nel 2023. Siamo all’uscita dei tornanti, dove si supera per qualche metro il 25 per cento di pendenza

Il Muro d’Huy

Passiamo al Muro d’Huy. Una vera icona. Nella Freccia Vallone si affronta per tre volte e ognuna è una bolgia, uno stadio a cielo aperto. Introdotto nel 1982 (quando vinse Mario Beccia), è diventato il punto d’arrivo della corsa dal 1985. Da allora, gli italiani hanno vinto 11 volte. Bartoli alzò le mani nel 1999.

Michele, eccoci dunque al Muro d’Huy. Ulissi ci ha detto che quando si sale si vive il pubblico, ne puoi sentire l’odore…

In generale devo dire che la Freccia Vallone mi è sempre piaciuta tantissimo. L’ho sempre cercata, in tutti i modi. Sì, Ulissi ha fatto una descrizione giusta. Il Muro d’Huy ti dà sempre i brividi, dalla prima all’ultima volta. E rispetto ad altre salite simbolo, penso al Grammont o al Poggio, è l’unica con l’arrivo in cima.

Come prima: descrivici la salita. Si pensa sempre alla “S” dura, ma anche prima non regala niente…

Inizia a salire sin dall’abitato di Huy e già dal chilometro finale, quando si svolta a destra e si entra nel muro vero e proprio, capisci come andrà a finire. Se senti che la gamba non risponde, è bene cambiare tattica e giocare in difesa.

Lì è importante avere un compagno di squadra che ti porta su, o essere già in posizione giusta ma coperto, giusto?

E’ importante, perché quando svolti a destra, se sei anche solo un po’ indietro, spendi energie per tornare davanti. E se in quel momento accelerano, ti manca quell’attimo per respirare. Avere un compagno è l’ideale, ma se non ce l’hai devi comunque stare davanti. Anche perché nel chilometro finale la strada diventa molto stretta.

Chiaro…

E’ molto ripida, siamo oltre il 20 per cento. Però si gestisce. Io cercavo sempre il feeling giusto, risparmiando fino alla S, perché l’attacco da lì in poi “viene da solo”. A quel punto, se hai la gamba, dai tutto fino a dove spiana. Lì capivi se i pochi rimasti andavano in difficoltà. A me piaceva guardare in faccia l’avversario: capire se stava accusando.

In quel tratto finale (tra il 9 e il 6 per cento) si riesce a mettere la corona grande?

No, è improponibile. Lavori dietro con i rapporti.

La Redoute. Qui termina (oggi) questa cotes. I corridori svoltano a destra con una curva a gomito
La Redoute. Qui termina (oggi) questa cotes. I corridori svoltano a destra con una curva a gomito

La Redoute

E veniamo infine alla Redoute, perla della Liegi-Bastogne-Liegi. Siamo “a casa” di Philippe Gilbert, nell’immenso spiazzo dei camper che si radunano alla base, e qualcuno anche lungo la salita, sin dal giovedì dopo la Freccia per gustarsi le ricognizioni.
La Redoute si affronta una sola volta. Quest’anno arriva al chilometro 218, cioè a 34 dalla fine.

Michele, chiudiamo con la Redoute. Rispetto ai tuoi tempi è cambiata: ora in cima al tratto duro si svolta a destra e si scende. Una volta c’era un falsopiano…

La Redoute aveva perso un po’ d’interesse con l’inserimento della Cote de la Roche aux Faucons. Ma adesso, con questi campioni, è tornata in auge. Di certo è cambiata tatticamente. Resta un trampolino di lancio dove misuri l’avversario o decidi di scatenare qualcosa. Per me la gara iniziava sulla Redoute. Lì capivi chi stava bene e chi no. Se era il caso di fare un attacco decisivo.

Come si prende? All’imbocco la strada è stretta, c’è quel dedalo di curve nel paesino…

E’ un bel problema prenderla bene, perché si viene da una discesa ampia che ti fa organizzare male la squadra. Ti passano da tutte le parti. Io lì usavo molto i compagni per stare davanti e dettare il ritmo.

Della salita vera e propria cosa ci dici?

E’ dura davvero. Ti toglie energie. Man mano che sali senti che le sensazioni cambiano, forse per la tensione accumulata. Non è il Mortirolo, ma quando arrivi in cima sei esausto: è un continuo aumentare della pendenza.

Tu dove attaccavi?

Ai 500-600 metri dal termine del tratto duro. Ma sono metri lunghissimi, non passano mai. Hai la percezione che il tempo rallenti: «Ora ci arrivo, ora ci arrivo»… ma non ci arrivi mai!

Sulla Redoute c’è sempre tanta gente. Che atmosfera si percepisce?

Durante la ricognizione, almeno per me, era sempre un test. Capire se era l’anno giusto, se avevi la gamba. Era quasi come una gara. Il tifo si percepisce, anche se sei concentrato. E’ un tratto talmente particolare che riesci a renderti conto di quanto ti urlano.

E questo contribuisce a rendere il momento importante?

Se sei tu a dettare il ritmo sì. Altrimenti, se subisci, il caos ti dà fastidio. Almeno, per me era così.

Abbiamo detto che non c’è più il falsopiano dopo il tratto duro: ti piace di più la vecchia versione o la nuova?

Tatticamente, la vecchia era meglio. Anch’io la vera differenza la facevo sul falsopiano. Ora, se non riesci a mettere in difficoltà gli avversari nel segmento duro è finita. La Redoute è passata. Prima, invece, avevi un “secondo round”.