Leonardo Piepoli, figlio Yanis, #NoiConVoi2016

Piepoli ci porta nei pensieri di Bettiol

28.12.2020
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Che cosa intendeva Alberto Bettiol quando ha detto che non sarà mai autonomo e avrà sempre bisogno di un supporto? Lo abbiamo chiesto a Leonardo Piepoli, che da anni ne segue la preparazione. E che, a detta del toscano, lo supporta anche sul piano psicologico, essendo uno dei due pilastri sportivi che gli sono rimasti dopo la morte del procuratore Mauro Battaglini. Il terzo è Gabriele Balducci. Quando parla del pugliese, Bettiol ama parlare di lui come del suo “stalker”.

Piepoli ormai fa base fissa in Puglia, dove ha la sua squadra di bambini e dove a sua volta 20 mesi fa ha avuto una bimba, Zoe. Leo ha un altro figlio, che si chiama Yanis e ha 13 anni, ma vive in Francia con la mamma ed è il motivo per cui Leo conserva un punto d’appoggio in Liguria, dove è cresciuto ciclisticamente. I due, padre e figlio, sono appena arrivati in Puglia per passare qualche giorno insieme (nella foto di apertura, sono insieme alla pedalata di solidarietà #NoiConVoi2016 nelle zone del sisma del Centro Italia). La fine di quel matrimonio e gli ultimi 13 anni passati tra l’inferno e il purgatorio sono il conto che Piepoli ha pagato per la positività al Tour del 2008. Una pena che in Italia non si sconta per aver ucciso due ragazze guidando da ubriachi, per aver falciato 8 ciclisti nelle stesse condizioni e tantomeno per stupro.

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Benedetta umiltà

Il corridore non è una macchina, non si risolve tutto trovando la tabella giusta e avviando il motore. Bettiol ne è la prova.

«E’ stato malato per 15 giorni, ve lo ha detto – spiega Piepoli – quindi avendo ricominciato da poco ad allenarsi, era come se ripartisse da zero. Perciò, visto che in Toscana si annunciava tempo brutto, gli ho mandato un messaggio. Gli suggerivo di organizzarsi per andare magari a far visita a Caruso in Sicilia, con cui so che si trova bene. Mi sarei anche potuto aspettare che ci pensasse da solo, invece…».

Cosa ti ha risposto?

Mi ha chiesto se fossi diventato matto. Il ruolo di scardinare questa sua inerzia lo dividevamo in tre, appunto con Battaglini e Balducci. Lo facevamo a rotazione, per non essere troppo invadenti.

Per questo dice che Piepoli è il suo “stalker”? 

Esatto. Per fortuna è ancora nella fase in cui risponde positivamente agli stimoli. Ricordo invece quando lavoravo con Pozzato, che se ne fregava di certi richiami e faceva a modo suo. Bettiol se non altro mantiene l’umiltà. Balducci da un po’ gli va ripetendo che anche Pieri aveva un grandissimo talento, ma che di Pieri ne basta uno.

Forse per questo tipo di stimoli vivere da solo a Lugano non va tanto bene?

Non crediate, ha bisogno di cambiare. Se sta troppo con Balducci, gli prende le misure. A Lugano trova gente super mentalizzata, come Pozzovivo e Nibali e un po’ lo mettono alle strette. Bettiol vale tanto. Nelle giuste condizioni di gara, può vincere una Liegi e anche un mondiale come quello di Imola. Siamo ancora lontani dai suoi limiti e forse non li scoprirà mai. Almeno se non smette di essere lui l’ostacolo.

Dice che allenarsi in gruppo è lo stimolo per stare sotto l’acqua in allenamento.

Perfetto, è esattamente così. Se va liscio, non ha problemi. Se c’è bel tempo, esce, si allena, fa tutto alla perfezione. Il maltempo invece gli rende tutto difficile, resterebbe volentieri in casa. Neanche a me piaceva allenarmi da solo oppure quando pioveva, ma il vero professionista è quello che si organizza. Sta tutto a farlo uscire.

Leonardo Piepoli, Giro d'Italia 1997
Piepoli passò professionista nel 1995 con la Refin. Qui al Giro d’Italia del 1997
Leonardo Piepoli, Giro d'Italia 1997
Piepoli professionista dal 1995 con la Refin
Ha detto che Imola era troppo duro per lui.

E’ vero, ma avrebbe potuto vincerlo in diverse circostanze di corsa. Come la Liegi. Se aspetti l’ultimo strappo, Alaphilippe ti fa fuori. Ma se la corsa esplode e giochi di anticipo, sei vincente. Come Mollema ha vinto il Lombardia, insomma. A volte più della percentuale di forma, conta la qualità del corridore.

Difficile da far capire?

Nell’ultimo anno ha imparato a stringere i denti più di quanto abbia mai fatto. Ha capito che vince chi sa soffrire di più e reagisce meglio alle situazioni di gara. Che vince di sicuro con il 110 per cento della forma, ma deve provarci anche al 90.

Perché dopo il Fiandre per un po’ è sparito?

Perché si è sentito un supereroe e ha cominciato a correre con il chip di non fare fatica. Dieci giorni dopo, c’era la Freccia del Brabante. Ha esitato e la fuga è andata via. Quando si è accorto che non rientravano, è partito da solo e ha staccato il gruppetto in cui si era ritrovato. Ha cominciato a dire che non stava bene e che era troppo dura, anche davanti all’evidenza che era uscito da solo facendo un numero. Era il più forte di tutti, avrebbe vinto anche quel giorno. Lo scorso inverno è servito per chiarirsi, tanto che a inizio stagione ha vinto subito.

Come hai vissuto questi 13 anni di esilio?

Male, a volte la vivo male ancora oggi. Quando sono andato ad Aigle per fare il corso Uci ero a disagio, sentivo di non essere al mio posto. Solo che mentre ero in auto che aspettavo, sono arrivati Basso, Julich, Sorensen, che non erano certo meglio di me, così mi sono rilassato. Ho fatto ammenda. Ho partecipato e tenuto seminari contro il doping. Sono andato alla Cadf, la commissione antidoping. Sono andato all’Mpcc. Ho fatto e parlato con tutti quelli con cui dovevo parlare. Forse è arrivato il tempo di chiudere quella porta e aprirne un’altra.