Nel mondo del ciclismo e dello sport in generale si parla sempre più spesso di integratori. Basta scorrere i social per rendersi conto di quanto l’attenzione sia spesso focalizzata su polveri, capsule e bevande funzionali, presentate come la chiave per fare un salto di qualità. Il rischio, però, è quello di attribuire all’integrazione un ruolo che la scienza dello sport non le riconosce, alimentando aspettative sproporzionate rispetto ai reali benefici.


L’integrazione non basta
La performance di un atleta non nasce da un singolo fattore, ma dall’interazione di più elementi che si costruiscono nel tempo. Alla base c’è l’allenamento, inteso come stimolo metodico e progressivo capace di indurre adattamenti cardiovascolari, metabolici e neuromuscolari. Subito dopo troviamo la nutrizione quotidiana, che fornisce l’energia e i nutrienti necessari per sostenere quei carichi di lavoro e per recuperare. Senza una dieta adeguata per quantità, qualità e distribuzione dei pasti, nessun integratore può compensare le carenze.
Il riposo e il sonno rappresentano un altro pilastro spesso sottovalutato, ma fondamentale per consolidare gli adattamenti all’allenamento. A questi si aggiungono le doti fisiche individuali, che determinano il potenziale di partenza di ciascun atleta, e la componente mentale, ovvero la capacità di tollerare la fatica, di gestire lo sforzo e controllare le emozioni.


Fra agonisti e amatori
Solo alla punta di questa piramide si colloca l’integrazione. Non perché sia inutile, ma perché il suo impatto è marginale rispetto a tutto ciò che viene prima. Questo concetto è ribadito con chiarezza anche nei documenti ufficiali di enti come il Comitato Olimpico Internazionale, che nella sua dichiarazione di consenso del 2018, ha sottolineato come pochissimi integratori abbiano reali evidenze sulla performance e come il loro effetto sia comunque limitato.
Un altro aspetto cruciale riguarda l’interpretazione degli studi scientifici. Molti sono condotti su soggetti poco allenati e quasi mai atlete o giovani sportivi. Spesso si leggono titoli che parlano di miglioramenti della performance, ma raramente si riflette su cosa significhi concretamente quel dato. Un aumento dell’1–2% può fare la differenza tra un podio e un quarto posto nel professionismo, ma per un ciclista amatoriale è poco rilevante, soprattutto se allenamento, alimentazione o recupero non sono costantemente ottimizzati. Inoltre, i miglioramenti più evidenti che si osservano nei soggetti studiati si riducono drasticamente negli atleti agonisti.


L’effetto placebo
Il problema nasce quando l’integrazione viene utilizzata come scorciatoia. Se l’alimentazione quotidiana è sbilanciata, il carico di allenamento è mal gestito o il sonno è insufficiente, l’integratore diventa al massimo un palliativo. In alcuni casi, può persino creare più problemi che benefici, soprattutto se assunto senza criterio o in combinazione con farmaci.
Questo non significa demonizzare l’integrazione, ma ricondurla al suo reale significato: un supplemento che può avere senso in presenza di carenze documentate, in periodi di carichi elevati o in situazioni specifiche, ma non può rivoluzionare la performance di un atleta. Il vero miglioramento nasce dalla fatica, dal sacrificio e dalla nostra quotidianità. Negli altri casi, spesso, è più l’inganno della nostra mente a farci percepire il miglioramento dato da un integratore, per il cosiddetto “effetto placebo”, che comunque può essere sfruttato con strategia.
Prima di chiedersi quale integratore assumere, vale la pena chiedersi se si sta mangiando abbastanza, se si recupera adeguatamente, se l’allenamento è strutturato e se si dorme a sufficienza. Solo quando queste basi sono solide, l’integrazione può diventare uno strumento utile, e non un’illusione. Diverso è ovviamente il caso di conclamate carenze nutrizionali specifiche, che nonostante una dieta adeguata non riusciamo a colmare. In questi casi, è sempre opportuna un’attenta valutazione medica, per impostare un corretto piano di supplementazione.