Cambiano tempi e potenze, ma la fatica?

07.12.2021
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Alcuni giorni fa pubblicammo un editoriale ispirato al secondo libro di Guillaume Martin. Il corridore/filosofo francese sostiene che l’intensità dello sforzo dei professionisti contemporanei è ben superiore a quello dei pionieri di questo sport. La frase continuava a ronzarci per la mente, con qualche dubbio. Si va veloci: le bici sono super, le metodiche di allenamento avanzatissime e l’alimentazione è mirata al tipo di sforzo da affrontare. Però com’era quando le bici pesavano 12 chili, la preparazione era empirica, si mangiava seguendo abitudini e miti più che principi scientifici e le strade erano di terra? Le velocità erano innegabilmente inferiori, ma l’intensità dello sforzo? E la fatica?

Pantani stabilì il record di scalata dell’Alpe d’Huez nel 1997, scalandola in 37’35” (Vam 1704,41 m/h). Al Tour del 1952 Coppi impiegò 45’22” (Vam 1407,78 m/h): un abisso, che però dà la grandezza di Coppi pensando che Lemond e Hinault nel 1986 impiegarono 48′. La fatica di Coppi fu davvero inferiore a quella di Marco? Cos’è la fatica se non la percezione dello sforzo?

Il battito cardiaco

Dato che sarebbe impossibile quantificare le variazioni indotte dai parametri citati, la curiosità si è spostata su quali fossero gli strumenti un tempo a disposizione per valutare le prestazioni dell’atleta. Il passo giusto per renderci conto che la medicina dello sport non esisteva ancora e che l’allenatore, per come lo intendiamo oggi, non era che una suggestione. I corridori, anche i più grandi, si affidavano ai massaggiatori per allenamenti e alimentazione. Al massimo ai direttori sportivi. E i dottori controllavano quel che si poteva.

«La medicina dello sport non c’era – racconta Massimo Besnati, fino al 2021 dottore della nazionale – non c’erano alternative, per medici e corridori. Non esistevano i test, semmai le sensazioni. Poteva capitare che il corridore si prendesse il battito in cima alla salita, ma chiaramente non c’erano strumenti per la rilevazione in tempo reale. Tante cose sono cambiate, per questo è impossibile fare raffronti. Fra i primi ad affrontare la questione con un approccio scientifico, ci fu sicuramente Giovanni Falai».

Chiediamo a Falai

Il medico toscano, che nella sua carriera è stato accanto a Gimondi e Moser, Bitossi (fu lui a venire a capo ai problemi cardiaci di “Cuore matto”) e Bartalini, Francioni, Mori e ha visitato qualche volta anche Merckx, ha compiuto 91 anni a luglio e quasi si stupisce della curiosità sull’argomento.

«Quello che si poteva fare – sorride – era misurare il battito dell’atleta a riposo la mattina e la sera per valutare se recuperava bene. Ricordo Ritter con 30 battiti a riposo e Bartali con 32. Si guardava la pressione arteriosa, ma non si andava oltre perché non avevamo gli strumenti. Però sull’argomento si può dire che le velocità di oggi non sono dovute soltanto a una fatica superiore, ma anche a bici migliori e strade più scorrevoli. Una volta la bici proprio non scorreva, sembravano gare di ciclocross e il ciclismo secondo me era più faticoso dell’attuale…».

Per anni si è creduto che la carne rossa fosse il solo modo di integrare proteine e ferro
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Metodi empirici

Sul fronte invece del tipo di sforzo, ovviamente si resta nel campo dell’osservazione e di una deduzione che per i motivi citati da Besnati non può essere più di tanto precisa.

«C’erano cuori più grandi – dice Falai – proprio a livello di sviluppo, ma ci sono anche oggi. Non credo che il livello di fatica cui venivano sottoposti fosse inferiore a quello attuale, anche se oggi a parità di fatica si ottengono prestazioni superiori. L’alimentazione aiuta tanto, prima si facevano tanti errori. Ci si riempiva di proteine attraverso tante bistecche e l’alimentazione sbagliata incideva sulle difese immunitarie. Ora si studia la funzione renale, una volta al massimo osservavamo il fegato per capire se eliminava le tossine nel modo giusto. Semmai si usava qualche disintossicante. Oggi si fa tanta prevenzione a livello renale ed epatico, prima era impossibile. Si facevano valutazioni a occhio. Poi con la medicina sportiva sono arrivati nuovi strumenti che oggi rendono tutto più calcolabile e persino prevedibile. La domanda perciò è un’altra: è più faticoso correre, dare il massimo e arrivare sfiniti senza conoscere i propri limiti, oppure riuscire a tirare fuori il massimo conoscendoli anche numericamente?».