Anche Villa, analizzando i recenti Giochi Olimpici di Parigi 2024, ha riconosciuto che Sam Welsford sia stato l’arma in più del quartetto australiano verso oro e record del mondo. Un motore straordinario, all’altezza del Ganna di Tokyo 2021, che ha regalato il massimo ai Wallabies. Per ottenere l’alloro olimpico, il corridore della Red Bull-Bora Hansgrohe ha rinunciato a tanto, fatto grossi sacrifici, messo in freezer la sua carriera su strada proprio perché c’era un appuntamento con la storia al quale non poteva mancare.
I giorni di Parigi sono passati, Welsford ancora non ha ripreso la sua attività (lo farà oggi al Renewi Tour in Belgio) ma sente ancora nell’aria quell’elettricità che ha portato il suo oro, uno dei più belli dell’eccezionale spedizione australiana a Parigi, capace di cogliere il terzo posto nel medagliere contro ogni pronostico.
Quando sei stato coinvolto nel progetto del quartetto olimpico e qual è stata la differenza principale rispetto all’Australia degli scorsi anni che vi ha portato all’oro e al record?
E’ stata una scelta positiva. Ero stato argento a Rio 2016 e bronzo a Tokyo tre anni fa, in cuor mio ho sempre saputo che volevo tornare e provare a ottenere quella benedetta medaglia d’oro. A Tokyo era stato un disastro nelle qualificazioni che ci aveva messo subito fuori gioco. Dovevamo riscattarci. E così abbiamo ricominciato ad allenarci, ma prima ci siamo presi un po’ di tempo lontano dalla pista. E’ come se ci fossimo disintossicati. Abbiamo ripreso quest’anno con un’idea chiara in mente. Abbiamo fatto la Nations Cup come gara di preparazione, di costruzione della squadra insieme e poi abbiamo fatto un sacco di lavoro a Maiorca, concentrandoci in maniera quasi monacale. Poi ad Anadia in Portogallo per fare davvero quel lavoro specifico che ci serviva e siamo arrivati a Parigi al massimo, consci che potevamo farlo.
Tu hai smesso di correre su strada a metà giugno: è stato un problema per il team non poter contare su di te?
All’inizio della stagione ero andato molto bene, ma sapevo che non poteva durare, dovevo pensare a che cosa serve per essere campioni in pista, a quel tipo di allenamento diverso dalla strada. Il piano con la squadra era avere un buon blocco di gare prima del lavoro specifico e poi rivederci dopo Parigi. In Slovenia ero già con la mente verso il quartetto, era stata una gara anche molto severa, arcigna. Devo dire grazie al team che mi ha supportato nel mio sogno. Ora sono concentrato per fare comunque un buon finale di stagione. Nel team d’altro canto sanno anche che la pista è molto utile per il mio sprint.
Avevi iniziato la stagione in maniera trionfale al Santos Tour Down Under: come giudichi la prima parte dell’anno su strada?
Penso che vincere nel mio Paese d’origine, la gara di casa ad Adelaide, sia stato super speciale e vincerne poi tre sia stato incredibile. Ero davvero entusiasta della stagione che stavamo iniziando. E’ stato sicuramente uno dei miei momenti salienti dell’anno. Un velocista che vince tre volte nella stessa gara non accade spesso, quando succede devi goderti il momento.
Ti vedi più come corridore su strada o su pista?
Ora sono probabilmente più uno stradista. L’oro di Parigi non cambia quello che sono. Ora voglio avere la mia carriera e credo che alla mia età ora posso essere uno dei migliori velocisti nel gruppo, giocare le mie carte nei Grandi Giri, Ma per farlo dovevo chiudere un cerchio e ringrazio i tecnici per avermi permesso di farlo con quella medaglia d’oro.
Tornando alla preparazione per Parigi, quanto è stato importante potersi allenare senza distrazioni derivanti dall’attività su strada?
Un equilibrio c’è sempre stato, non credo nella divisione netta delle carriere. È più come se dovessi fare un po’ di entrambe le cose. Anche senza gareggiare su pista, allenarcisi sopra è importante, soprattutto per la forza che un velocista deve avere. Non è solo questione di forma fisica generale, ma di cura del motore, per così dire. Soprattutto se fai le volate di gruppo che ho fatto io. La pista ti abitua a sforzi brevi e intensi che creano molta fatica neurale. Sono stancanti, più dell’allenamento su strada, stai tranquillo che il giorno dopo non te la senti di fare 4 ore su strada… Ma in realtà è molto importante per il processo di passaggio, per lavorare sull’ultimo minuto di questa gara, quello decisivo.
Qual era la nazione che più temevate sulla strada verso l’oro?
Difficile dire. Sapevamo che c’era tanto equilibrio, con Italia, Gran Bretagna, Danimarca, temevamo anche i cugini neozelandesi. Impossibile prevedere prima che cosa sarebbe successo, noi sapevamo solo che dovevamo essere al massimo e non sbagliare, questa volta… Perché non avremmo avuto un’altra occasione. Devo però confessare che guardavo l’Italia e mi faceva impressione, sapevo che erano una squadra davvero buona e che Ganna stava andando bene. Sarebbe stata una minaccia davvero grande. Sai, sono sempre super per le Olimpiadi e sono stati campioni del mondo di recente, quindi sapevamo che erano anche loro al massimo, ma dovevamo guardare a noi stessi.
Molti ti giudicano come uno degli sprinter più forti del ciclismo attuale: è un ruolo che ti piace o pensi di avere anche altre caratteristiche?
Essere un velocista a me piace. È qualcosa in cui penso di essere abbastanza bravo. Con la giusta preparazione, penso che possa essere abbastanza veloce, all’altezza degli altri di primissimo piano. Fortunatamente negli ultimi due anni sono andato migliorando lentamente, ma non ho ancora raggiunto i livelli che penso di avere. D’altronde le corse sono cambiate, ora sprinter puri non ci sono più, devi saper tenere anche in salita. Su questi terreni collinari, che sono difficili per me perché ovviamente sono piuttosto pesante, posso e devo ancora migliorare.
Tu hai già il contratto per il prossimo anno: ti dedicherai ancora alla pista nel 2025?
Sai, ci ho pensato. E’ difficile dirlo ora. Per me, penso che sia importante che restituisca qualcosa al team. Mi concentro sulla strada e mostro loro quanto posso essere bravo. Se avrò una stagione davvero buona l’anno prossimo, penso che sia davvero positivo per la squadra e per mostrare cosa so fare. Penso di essere in quella fase della carriera in cui devi decidere cosa vuoi fare. Magari potrebbe essere utile fare qualche Sei Giorni, qualche uscita a fine anno. Ma non di più.