EDITORIALE / Computer e compact: due facce del progresso

29.11.2021
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Che cosa faresti se ti dicessero che dovrai mettere giù i prossimi articoli con la macchina da scrivere e non più al computer? In fondo se proponi ai corridori di limitare i rapporti, dovresti valutare la stessa cosa nei tuoi confronti, no?

La macchina da scrivere

Se mi dicessero che d’ora in poi dovrò usare la macchina da scrivere, inizialmente avrò bisogno di più tempo. L’ho usata tanto da ragazzo, meno nel lavoro ma l’ho usata. M’è servita l’ultima volta per l’esame da professionista e così ogni volta che nelle sale stampa vedevo Gino Sala o Gianni Mura che continuavano a picchiarci sopra, capivo anche quel loro attaccamento e la resistenza strenua.

Serve più tempo. Servono dita allenate. Serve essere precisi per non dover strappare ogni volta il foglio e non dover usare il bianchetto. Serve conoscere la grammatica, perché non c’è il computer che ti segnala l’errore. Sparirebbe il copia e incolla. Ma alla fine se hai contenuti da esprimere, li tiri fuori a prescindere dallo strumento che usi. Quelli bravi resterebbero bravi, gli altri farebbero più fatica a nascondersi.

Il computer e prima la macchina da scrivere non hanno modificato il talento di Gianni Mura (foto Repubblica)
Il computer e prima la macchina da scrivere non hanno modificato il talento di Gianni Mura (foto Repubblica)

Sarebbe utile?

Ci sarebbe semmai da porsi la domanda successiva: sarebbe davvero utile? La risposta più evidente è no. Al di là del comfort per chi scrive, ci sarebbe da rivedere il sistema di trasmissione e servirebbe comunque qualcuno che successivamente riversasse i testi in un computer. A meno di non voler riportare il mondo indietro di trent’anni.

Nonostante ciò, la prospettiva di leggere frasi corrette (perché in qualche modo si sarebbe costretti a studiare la grammatica) e la fatica superiore imposta a chi attinge a piene mani dal lavoro degli altri sarebbero argomenti molto interessanti, per i lettori e per i colleghi.

La limitazione dei rapporti

Qualche giorno fa, Filippo Lorenzon ha proposto un quesito a tre personaggi di spicco del ciclismo: cambierebbe qualcosa sulle salite se togliessimo di mezzo le compact e in qualche modo si limitasse lo sviluppo metrico dei rapporti?

Sì, cambierebbe e anche molto. Se il computer e la macchina da scrivere non incidono sul risultato finale, le guarniture compact possono influenzarlo e di fatto ciò accade regolarmente da anni.

Vi siete mai chiesti perché fra Bartali, Coppi, Merckx, Pantani e gli altri ci fossero quei distacchi così ampi? Per la forza fisica del più forte che, a parità di sviluppo metrico, era in grado di girare il rapporto più rapidamente degli altri.

Si diceva: Pantani va più agile in salita. Ma quando mai? La lettura giusta la diede Garzelli: «Pantani non va più agile, semplicemente fa girare più degli altri lo stesso rapporto, quindi fa più velocità».

I tre soggetti intervistati non sono entrati nel merito, ma hanno attuato comprensibilmente una difesa d’ufficio: non avrebbe senso, ormai non si può più. Solo Cattaneo ha posto una questione interessante: se limitiamo la demoltiplicazione del rapporto, allora ha senso farlo anche con i rapporti lunghi. Potrebbe avere senso. 

Sarebbe utile?

Rapporti uguali per tutti, significa che la differenza la fanno gli uomini. Se la tecnologia appiattisce le differenze, una riflessione va fatta. L’abbinamento fra rapporti demoltiplicati, misuratore di potenza e radio crea la macchina perfetta.

Per spingere rapporti più duri, come dice Cattaneo, serve più lavoro, ma alla fine ci si arrende alla forza di gravità. Bisogna gestire lo sforzo, sapendo di non poter rispondere a ogni cambio di ritmo dei più leggeri. Serve conoscersi. E alla fine, se perdi terreno in salita, dovrai trovare il modo per recuperare altrove.

La perplessità di Pantani? Che i giganti restassero con lui sulle salite
La perplessità di Pantani? Che i giganti restassero con lui sulle salite

«A me sta bene perdere 4 minuti da Ullrich nelle crono – diceva Marco – quello che non mi va giù è averlo a ruota sull’Alpe d’Huez».

Il ciclismo di oggi è più credibile. Non nascondiamoci dietro alla facile equazione per cui corse più dure sono un’istigazione al doping: l’etica prescinde da certi aspetti e saper gestire le fasi avverse deve far parte del bagaglio di chiunque.

Per cui, messa a punto per i più scettici la ricerca dei motori elettrici, sarebbe probabilmente impossibile per un corridore di 70 chili rispondere alle accelerazioni a raffica di uno scalatore su una pendenza superiore al 10 per cento. Non troppo a lungo, almeno. Ogni chilo farebbe la differenza.

Non sarebbe possibile o sarebbe molto improbabile ad esempio per un corridore come Froome (66 chili) resistere e piegare Chaves (57 chili) sullo Zoncolan come accadde nel 2018. Quella frequenza di pedalata da frullatore con un 39×32 non sarebbe stata possibile. Anche Yates avrebbe sofferto, ma ciascuno di quei 9 chili in meno sarebbe stato per lui una spinta.

Ad armi pari

Lo sapete quando nacque il modo di dire “ad armi pari”? Dai duelli di una volta, quelli in cui i due contendenti erano uno di fronte all’altro e potevano disporre di identici strumenti, che fossero pistola o coltello, con tanto di testimoni chiamati per sincerarsene. I motivi della contesa erano i più disparati e alla fine vinceva sempre quello più veloce, il più lucido, quello con la mira migliore.

Perciò nel rispondere alle questioni, non è sempre utile guardare il dito, ma ogni tanto gettare lo sguardo verso la luna. Gli equilibri in corsa cambierebbero, su questo non c’è dubbio. Gli squadroni avranno sempre buon gioco, ma che almeno meccanicamente lottino ad armi pari. Vincerebbero lo stesso, ma i 65 all’ora in pianura prima di arrivare alla salita, peserebbero anche sulle gambe dei passisti. E lo spettacolo, ne siamo certi, ne guadagnerebbe parecchio.