A voler essere gentili, si potrebbe dire che da un certo punto in poi, non ci abbiamo più capito niente. Il ciclismo mondiale degli under 23 ha preso una direzione diversa, mentre noi abbiamo continuato per la nostra ritrovandoci da tutt’altra parte, senza che il navigatore ci abbia detto che eravamo sulla strada meno utile. Oppure, se lo ha detto, abbiamo creduto di poter fare senza e ora ci ritroviamo sull’orlo di un precipizio, al culmine di una strada senza uscita. Cosa fare?
In occasione dell’Open Day di Beltrami, Bruno Reverberi ha detto quello che nessuno voleva sentirsi dire, ma che rispecchia il nuovo corso del ciclismo. «Le squadre under 23 non hanno più senso di esistere, bisognerebbe eliminare la categoria e far correre i giovani tra i team devo del WorldTour e le continental…». Anche in questo, se vogliamo c’è un’inesattezza: i devo team infatti sono tutti under 23 e le continental italiane, ad eccezione di pochi atleti rimasti, appartengono alla stessa categoria. Resta il senso del messaggio: non servono più le squadre che fanno solo attività non professionistica, perché non offrono ai ragazzi le occasioni di formazione che invece ricevono altrove.
La Zalf che chiude
I presidenti che si sono susseguiti al comando del ciclismo italiano negli ultimi 20 anni hanno tirato a campare, come si fa quando si manda avanti un vecchio albergo pieno di storia, ma con i segni del tempo che lo rendono meno appetibile delle strutture moderne tutte elettronica e integrazione. Perché lo hanno fatto? Proviamo a capirlo.
Probabilmente perché non ne hanno mai visto davvero la necessità, pensando che l’acqua nel pozzo non sarebbe mai finita. Poi perché questo avrebbe significato radunare un quantitativo enorme di direttori sportivi che hanno superato i 65 anni, costringendoli ad aggiornamenti che non tutti avrebbero gradito. Forse perché mettersi contro le società che ogni volta sono chiamate a votarli avrebbe significato perdere consenso. Magari anche perché consapevoli che la natura locale degli sponsor italiani non consentirebbe grosse aperture. E quando ci si è rassegnati alla conversione in continental, dopo l’entusiasmo della prima ora, si sono fatti bastare la qualifica (e i contributi che ne derivavano), senza sincerarsi che i team facessero un’attività all’altezza.
Il risultato finale, uno dei risultati finali più eclatanti è che la gloriosa Zalf Desirée Fior, che del vecchio albergo pieno di gloria ha tutta la nobiltà e gli acciacchi, è arrivata al capolinea ed è stata costretta a chiudere i battenti. Perché andare avanti se anno dopo anno ci si è ritrovati sempre di più ai margini, senza il minimo spiraglio di poter tornare ai vertici?
Il pasticcio del 1996
Come se ne esce? Reverberi ha una parte di ragione, ma non tutta. Anzi, il suo progetto giovani è per lui una necessità, ma anche una delle cause dello svuotamento della categoria under 23 italiana, assecondando le esigenze degli atleti e quelle dei loro procuratori che hanno una gran fretta di farli firmare. E allora perché non giocare una carta che finora pochi hanno azzardato, se non a sprazzi nei mesi dopo il Covid?
Il grosso gap fra i devo team e una squadra under 23 italiana è il livello dell’attività che svolgono. E se la scelta o la possibilità di andare a correre tra i professionisti riguarda le singole squadre, nulla o nessuno vieta di riqualificare le corse italiane.
L’UCI ha la sua responsabilità. Quando nel 1996 impose la categoria under 23, volendo a tutti i costi isolare i ventenni dagli elite, come prima disposizione impose il taglio dei chilometri di gara. E così classiche italiane per dilettanti, che si correvano da decenni sopra i 180 chilometri, divennero corsette per giovani corridori da tutelare. Preso atto che la misura non servì a risolvere i problemi più evidenti e che ormai un under 23 corre regolarmente tra i professionisti su distanze ben superiori ai 200 chilometri, forse è il caso di fare un passo indietro. Se non altro a livello italiano.
Il calendario che non c’è
Volendo dare un suggerimento al futuro presidente federale, fra i vari provvedimenti si potrebbe dirgli di mettere mano in modo incisivo al calendario. E se è vero che le internazionali venete di aprile sono piene dei devo team di tutta Europa, potrebbe offrire un sostegno cospicuo agli organizzatori delle classiche italiane di maggiore prestigio, supportandole nel passaggio alla qualifica di internazionali e mettendole nel calendario in modo che con un solo soggiorno, i team europei possano disputare almeno tre gare.
A quel punto, dotate di altimetrie e chilometraggi degni di attenzione, le nostre internazionali sarebbero di nuovo un richiamo per i team stranieri, tornando al contempo dei banchi di prova più attendibili anche per gli under 23 italiani. Lo scadimento dei nostri team, oltre a conduzioni superate e a volte supponenti, è anche l’effetto di un’attività insufficiente. Se per una settimana al mese fosse possibile creare un simile meccanismo, le cose cambierebbero. Le squadre avrebbero qualcosa da raccontare ai loro sponsor. E gli under 23 italiani non sarebbero costretti a saltare frettolosamente nel vuoto, avendo nel fallimento la sola alternativa al successo.