Il progetto legato al ciclismo africano non si è fermato allo scorso settembre e agli storici mondiali in Rwanda. Le iniziative si moltiplicano e quella legata al Team Amani potrebbe avere una portata storica. Parliamo infatti della prima squadra continental femminile completamente africana, che nei propositi dei suoi responsabili vuole ripercorrere i passi del Team Qhubeka, ma mantenendo una forte identità legata al Continente. E’ stata fondata nel 2020 da Sule Kangangi, ciclista tragicamente scomparso in un incidente in una gara di gravel due anni dopo e dall’avvocato penalista Mikel Delagrange.
La guida tecnica del team femminile è stata affidata Tsagbu Grmay, che proprio per guidare le ragazze verso il grande obiettivo della partecipazione al Tour Femmes entro tre anni, ha lasciato una lunga carriera trascorsa nei team WorldTour: «L’idea – dice – è cercare di costruire una squadra che ruoti attorno solo a cicliste dell’Africa orientale. Seguivo la squadra maschile sui social ed ero un loro grande fan, perché cercano di mettere insieme atleti provenienti da diversi Paesi dell’Africa orientale e portarli a gare in America, in Europa e nel gravel. Non appena mi sono ritirato dalle corse su strada, ho contattato il proprietario della squadra e gli ho detto che volevo collaborare, perché è qualcosa a cui ho sempre pensato».


La squadra femminile può avere più spazio di quella maschile?
Dipende, bisogna considerarlo in due modi. Bisogna vedere a che punto è il ciclismo mondiale nella categoria maschile e femminile e anche che tipo di talento e tipo di strutture abbiamo in Africa. Credo che per quanto riguarda le donne, non siamo molto lontani dalla posizione del ciclismo femminile nel mondo in questo momento, perché abbiamo già delle ragazze molto talentuose. Dobbiamo solo avere opportunità, come stiamo facendo come Team Amani. Quindi raggiungeremo più velocemente il livello più alto con le donne che con gli uomini. Ma credo che in entrambi abbiamo talento: lo vediamo già con Biniam Girmay e dietro di lui vediamo già il potenziale negli atleti africani.
Perché pensi che fra le donne ci siano maggiori possibilità?
Perché abbiamo ragazze di grande talento e vedo anche il loro background, da dove provengono, quanto vogliono avere la loro libertà. Vogliono lottare per la vittoria, vogliono lottare per inseguire il loro sogno perché non è mai successo prima. Aggiungiamo a questo il fatto che il movimento mondiale femminile è ancora in forte crescita. E’ un grande salto, ma è tutta una questione di tempismo. Con gli uomini, ci arriveremo, ma con le donne lo sentiamo e stiamo davvero inseguendo il sogno realistico che è possibile realizzare in breve tempo.


La rassegna iridata in Rwanda secondo te avrà effetti a lunga durata sullo sviluppo del ciclismo in Africa?
Dipende da che tipo di progetti si vogliono portare avanti. Il Team Amani esisteva da anni e stiamo ancora crescendo lentamente, con grandi progetti e grandi obiettivi per i prossimi 10 anni. Abbiamo la tabella di marcia e sappiamo tutto ciò che serve per raggiungere il nostro obiettivo. E’ incredibile ciò che l’UCI ha fatto per l’Africa ed è stato uno dei punti di svolta per me e uno dei punti chiave che potrebbe avere un impatto significativo sul ciclismo africano.
Perché usi il condizionale?
Perché è un evento che si è svolto a settembre e dobbiamo vedere che tipo di progetto continuerà. L’Africa ha bisogno di più gare UCI, di più opportunità da offrire agli atleti. L’UCI si è presa un grosso rischio nel fare questo, ma la scommessa è stata vincente. Ora su quella bisogna costruire qualcosa di duraturo. E’ un processo a lungo termine.


In Paesi come il tuo dove calcio e atletica sono gli sport più amati dai ragazzi, il ciclismo comincia ad affermarsi?
Sì, in una parte dell’Africa orientale è importante. Ad esempio in Etiopia il ciclismo è davvero molto, molto importante, nascono squadre, come anche in Eritrea. Ma il mondo non sa che tipo di gare facciamo e come la gente le ama. Abbiamo una struttura di gare incredibile, almeno 40 all’anno e la gente le adora, ci sostiene. Ma è un mondo piccolo che ha bisogno di risalto per espandersi. Ad esempio, il Kenya è indietro, come se il ciclismo non fosse la priorità assoluta.
E’ importante avere una visione d’insieme?
Io seguo il ciclismo africano dal 2010, da quando ho iniziato a viaggiare per l’Africa, correndo gare UCI in Rwanda prima di diventare professionista. E ho potuto vedere i cambiamenti, come l’Uganda che sta già arrivando. La corsa a piedi è nelle nostre corde, hai solo bisogno di talento che qui non manca di certo. Il ciclismo invece è uno sport costoso, serve la bici, serve tutto. Se fornisci questo, penso che il talento ci sia e possa emergere.


Qual è il coinvolgimento di Ashleigh Moolman-Pasio nel team?
Voglio continuare a coinvolgere persone come Ashleigh, perché lei ne sa più di chiunque altro nel ciclismo femminile e sa cosa serve. C’è bisogno di persone come lei o anche come Biniam (Girmay, ndr), tutte queste persone che attraversano il ciclismo africano. Voglio che siano a bordo di questo progetto per sostenerlo, perché è qualcosa che ci accomuna tutti, in modo diverso, al livello più alto. Per me, l’idea è anche quella di dare potere alle persone per investire e lavorare come un unico progetto, su come possiamo rendere grande l’Africa nel ciclismo. Ashleigh ha cercato di aiutare le donne del Sudafrica e di altri Paesi, anche in Etiopia. E’ qualcosa in cui è coinvolta e lo sarà ancora di più quando si ritirerà, semplicemente gestendo la squadra, quindi siamo entusiasti di averla con noi.
Come sarà composto il roster, quante ragazze avrà e saranno solo cicliste africane?
Saremo aperti a tutti i Paesi africani e avremo solo atlete africane nere su cui vogliamo concentrarci. Tra le donne, abbiamo un minimo di 8 atlete, come richiesto dall’UCI perché stiamo anche lottando con il budget per riuscire ad allargarla e avere più opportunità. Ma vogliamo arrivare a circa 12 atlete. Tra Rwanda, Etiopia, Uganda, Kenya, abbiamo già circa 50 atleti tra i 14 e i 18 anni che seguiamo. Abbiamo molti progetti in corso dietro le quinte, ragazzi giovani da allenare, da far pedalare, da insegnare loro le tecniche, l’alimentazione e tutte queste cose. E’ un progetto a lungo termine.


L’obiettivo è arrivare al Tour nel 2028. Intanto dalla prossima stagione che cosa vi attendete?
La prossima stagione consiste semplicemente nel venire in Europa e mostrare il potenziale, che tipo di atleti abbiamo e qual è il talento di cui disponiamo. Se vuoi partecipare al Tour, nel 2028, devi mostrare il potenziale, perché il ciclismo non è solo questione di watt per chilo, non è solo questione di velocità in salita. Ci sono molte cose su cui stiamo cercando di lavorare. Per il prossimo anno, non ci sono aspettative legate al risultato. Se centreremo una Top 10 in quelle gare importanti a cui parteciperemo, è fantastico. E’ un bonus, ma la cosa più importante è dare esperienza alle ragazze, in modo che possano essere in grado di gareggiare davanti. Quindi questo è il nostro obiettivo per il prossimo anno: dimostrare al mondo che è possibile arrivare fino al 2028, perché è un obiettivo realistico.