Quella che è da poco iniziata si prospetta come una stagione particolare per il ciclocross italiano: nessuno stradista professionista o under 23 di livello ci sarà. Il che potrebbe non essere il massimo. Anche l’altro giorno Diego Bragato, tecnico della performance della Federciclismo, aveva rinnovato il concetto di quanto fosse importante fare la doppia attività, strada e cross, proprio come lo è stata per la pista. E abbiamo visto i risultati che poi sono arrivati.
La tendenza invece qui è opposta: dopo Davide De Pretto, Bryan Olivo, Silvia Persico, anche Luca Paletti ha detto basta col cross. E ci fermiamo qui.
Purtroppo è un concetto che fa fatica a radicarsi in Italia. La pista per ora resta un’eccezione come ne ha parlato anche il nostro direttore nell’editoriale di un paio di settimane fa. Un concetto che abbiamo approfondito con Enrico Franzoi, uno dei crossisti azzurri più importanti dell’era recente. Enrico ha colto i suoi migliori risultati nel cross proprio quando correva con le maggiori squadre italiane: Saeco, Lampre, Liquigas…
Enrico, dicevamo, doppia attività, strada e cross: cosa ne pensi?
Io sono d’accordo, serve la doppia attività. Parlo soprattutto in base alla mia esperienza: mi sono trovato bene in carriera a fare bene sia la strada che il cross. Mi serviva tanto correre su strada. Infatti, i risultati più belli che ho ottenuto nel cross sono arrivati grazie alle molte gare su strada.
Chiaro…
Era una cosa che facevano tutti all’epoca, sia i belgi che i corridori di altre Nazioni. Anche noi italiani, alla fine: all’epoca c’erano quasi più stradisti che facevano cross che biker. Un po’ l’inverso di oggi in Italia. Insomma, la cultura di fare la stagione su strada per preparare il cross era abbastanza viva.
E poi cosa è successo?
Negli anni successivi è cambiata un po’ la mentalità. Sono aumentati i biker rispetto agli stradisti. Infatti, sono andato in Belgio a correre (alla BKCP, ndr) dove si correva su strada per preparare al meglio la stagione del cross.
Da ex crossista, pensi che la strada sia importante per il ciclocross? Oggi si parla tanto di watt, di potenza… Per la pista, Bragato e Villa hanno sempre parlato dell’enorme base aerobica che dà la strada per fare determinati lavori: è questo il motivo?
Secondo me sì, perché il cross è più simile alla strada che alla mountain bike. Anche se si va fuoristrada, la tipologia di pedalata e lo sforzo fisico sono più simili alla strada. E io ho fatto anche mountain bike, quindi conosco le differenze. Per preparare una stagione di cross, la mountain bike è ottima, specie per la tecnica…
Ma…
Ma, dal punto di vista atletico, la strada, come detto, dà di più. Certo, se parliamo di percorsi molto tecnici, come le gimkane, magari la strada perde di efficacia. Ma per i cross in Belgio o quelli della mia epoca, la strada andava benissimo. Più il circuito è lineare, più la strada è utile.
Secondo te, questi super campioni – i soliti, Van der Poel, Van Aert, Pidcock – fanno la differenza perché sono loro a essere forti, o anche perché fanno strada?
Innanzitutto perché sono loro che sono forti, ma di certo le corse di alto livello – Giro, Delfinato, Tour, Sanremo… – li aiutano parecchio. Personalmente posso tranquillamente dividere la mia carriera in due: quando ho corso su strada e quando sono andato in mountain bike. Ho notato una grande differenza, soprattutto quando andavo all’estero. Sì, andavo bene, ma spesso avevo alti e bassi, non ero costante. Correndo costantemente su strada, rimanevo sempre con i primi. Mi ricordo benissimo quando ho iniziato a fare i grandi Giri: ho sentito un enorme beneficio, come un incremento di potenza… A questo si aggiunge la costanza di correre con i migliori e crescere continuamente. C’è poco da fare.
Per fare questo, però, Enrico, serve anche una squadra che creda nel progetto. Una squadra che ti permetta di gestire con criterio le due attività…
Certamente. All’epoca si può dire che sia stato quasi il primo a farlo a un certo livello, ma anche allora sono stato io a insistere per fare il cross. Non c’era questa abitudine così radicata da noi, almeno per squadre di un certo livello. Non è stato facile e, paradossalmente, quando andavo bene sia su strada che nel cross, in squadra c’erano problemi. Ma io ci credevo e insistevo.
Quando iniziavi a preparare la stagione del cross?
Io correvo a piedi quasi tutto l’anno. Ma, a dire il vero, non facevo una preparazione specifica come magari qualcuno fa ora. Adattavo il mio allenamento su strada e poi iniziavo l’altra attività. Ovviamente, la mancanza di qualche allenamento tecnico si sentiva, ma veniva compensata dal grande volume di lavoro intenso che svolgevo nella stagione su strada. Poi bisogna considerare un’altra cosa.
Quale?
Sono sempre stato un passista veloce, con un fisico robusto, ipertrofico, che per entrare in forma aveva bisogno di molte gare. Più gareggiavo, meglio mi sentivo. Questo era perfetto per conciliare le due attività. Ci sono stati anni in cui ho fatto anche la crono iridata (under 23, ndr) a ottobre e la settimana dopo ero già al ciclocross.
Come impostavi una tua stagione standard?
Facevo tutta la campagna del Nord, fino alla Roubaix (nella foto di apertura, ndr), Parigi-Nizza compresa. Poi riprendevo al Delfinato, poiché ero sempre in lizza per il Tour, anche se non l’ho mai fatto. Poi facevo il Giro d’Austria o qualche altra corsa a tappe e continuavo fino a fine stagione, iniziando subito con il cross.
Oggi sarebbe impensabile visti i tempi di recupero, riposo, carico… Sei passato anche dalla Vuelta…
Spesso, e poi tiravo dritto. I primi anni da professionista ho tirato avanti così: 30 cross e tantissime giornate di corsa su strada. Ho fatto due o tre anni così. Poi ho dovuto dosare gli sforzi e a novembre mi riposavo. Riprendevo poco prima di Natale e tiravo fino alla fine della stagione del cross. Facevo le prime prove di Coppa del Mondo per prendere punti.
Pensi che oggi, visto il livello attuale, la strada sia ancora importante per il crossista?
Per me la strada non è solo importante, è fondamentale. Ho corso anche con una squadra belga che faceva cross, ma in estate si correva su strada, anche in competizioni di secondo piano. Anche per loro, quella era la preparazione migliore.
Quindi un Iserbyt della situazione, la strada la fa…
E tanta, direi… Almeno una trentina di corse sicuro.