Il ciclismo sa ancora raccontare storie che ti lasciano col fiato sospeso. Come quella di Louis Vervaeke, che al Tour of Oman ha riassaporato il gusto dolce della vittoria dopo 10 anni di onorata carriera nel WorldTour, viaggiando praticamente fra tutti i team belga-olandesi, dalla Lotto alla Sunweb, dall’Alpecin alla Soudal dov’è arrivato nel 2022. Sempre con la fama di gregario affidabile, infaticabile, dedito al sacrificio. Ma sempre con quel piccolo tarlo in fondo all’anima.


Una mattinata di corsa e di caldo
Col passare degli anni ci fai quasi l’abitudine. Anche il ciclismo può diventare qualcosa di ordinario. Ti alzi, ti alleni, vai alle gare, pedali dando tutto, ma sempre nell’ombra, sperando che il capitano faccia il suo (anche perché se vince, i premi vengono divisi fra tutti e questo è un aspetto di condivisione che non è mai cambiato ed è una delle forze di questo sport…). Ci sono però giorni speciali, quelli nei quali cambia tutto e i ruoli si invertono. A Yitti Hills, nel caldo infernale della penisola araba, Louis ne ha vissuto uno.
Eppure, all’inizio tutto sembrava procedere come di consueto. La fuga iniziale che prendeva corpo, con il gruppo che lasciava fare. «Tanto non andranno lontani, li riprenderemo tutti». E’ quasi sempre così d’altronde. Quasi. Del naturale ordine delle cose fa parte anche qualcuno che, vedendo il solito tran tran del gruppo si dedichi all’inseguimento: «Si guardavano – racconterà il belga all’arrivo – nessuno si metteva al lavoro così, per evadere un po’ dalla noia ho pensato di andare a prenderli e uno spagnolo della Q36.5 mi ha seguito. Non c’è neanche voluto molto per riaccodarci, è bastato darci cambi regolari.


Il traguardo? Un miraggio…
«Pensare di vincere? No, allora no. Era un’azione come se ne vedono tante nella stagione. Nel gruppetto davanti abbiamo tirato un po’ tutti, ma c’era la consapevolezza che il gruppo sarebbe arrivato». Solo che non arrivava mai…
Perché uno come Vervaeke possa sovvertire l’ordine delle cose serve che alcuni tasselli vadano a combaciare. Magari le squadre dei velocisti che, per una o un’altra ragione, non si mettano d’accordo. Oppure il tuo team che, non avendo messo in conto una soluzione particolare per andare a caccia della vittoria parziale pensando alla classifica, cominci a pensare che, chissà, potrebbe essere una buona idea rompere i cambi e vedere come andrà a finire. Parliamo del Wolfpack, in questo sono maestri…


Quella voce interiore…
I chilometri passano, dietro avanzano sì, ma non con la consueta sollecitudine. E allora quel tarlo in fondo all’anima comincia a farsi sentire, a instillare il dubbio: e se fosse la volta buona? Perché non provarci, che hai da perdere? Poi magari ti resterà sempre il dubbio se non l’avrai fatto… Gli altri? Per un giorno faranno a meno di te, anzi saranno loro a darti una mano…
Gli altri mollano, hanno fatto il loro. Dovrebbe farlo anche lui, ma Vervaeke vuole provarci fino in fondo, a cercare quel che tante volte gli era sfuggito. Già, perché non è che in questi 10 anni Louis sia stato sempre lì a lavorare nelle prime fasi della corsa. Di fughe ne ha affrontate. Qualche piazzamento l’ha preso. Ma la vittoria, quella era rimasta un tabù. E di nuovo quella voce interiore: hai 31 anni, ti ricapiterà ancora un’occasione del genere? Ma vedi dietro di te quanti giovani ci sono che scalpitano? Che farebbero di tutto per prendersi il tuo posto? Magari se vinci i capi avranno un motivo in più a fine anno per mettere un’altra firma sul tuo contratto…


La spinta della famiglia
Il gruppo risale, e Louis tira dritto, le gambe diventano di piombo: «Mi è passato di tutto nella mente. Il traguardo che non arrivava mai, quella luce rossa delle energie che era ormai fissa nel mio cervello. Poi ho guardato il mio braccio destro: c’è un tatuaggio, un occhio con due nomi. Sono quelli dei miei figli Augustin e Celestine e quell’occhio è mia moglie Astrid, come a ricordarmi che erano lì, a spingermi, a dirmi che stavo facendo qualcosa che li rende orgogliosi. Era come se li sentissi, in mezzo al rumore dell’aria tagliata dal mio passaggio, delle ruote che procedevano frenetiche, della gente che mi incitava. Sentivo solo loro…».
20 secondi, 10, 5. I treni degli sprinter che lavorano a tutta, ma Louis non molla. Perché quel giorno “è” il giorno. Tutti i pianeti si sono messi in fila, tutti i pezzi del puzzle si sono incastrati. Il gruppo risale ma resterà indietro e c’è tempo anche per rialzarsi, per godersi quel sapore dimenticato. Indicando proprio quel tatuaggio sul braccio, perché è da lì che è nato tutto.


Il giorno dopo, tutto torna alla normalità. Louis torna a lavorare per i leader, Valentin Paret Peintre per l’occasione, ma quegli attimi non potrà portarglieli via più nessuno: la vittoria, il podio, le interviste del dopo corsa, tutti che chiedono le ragioni di quel gesto. Il ciclismo riprende il suo scorrere, con le luci della ribalta riservate ad altri. Quando però saranno passati anni, e magari i suoi figli avranno a loro volta avuto figli che guarderanno quelle foto sbiadite, Louis potrà raccontare di quel giorno magico quando, solo per quel giorno, tutto si ribaltò…