Con trent’anni di carriera professionistica alle spalle, Davide Rebellin è testimone di un ciclismo passato, ha attraversato il secolo affrontando grandi gioie e profonde delusioni. Ha conosciuto i vertici assoluti del movimento internazionale ma anche il rifiuto di quello stesso ambiente. E’ diventato un riferimento per i giovani ma anche uno pseudo intruso nelle gare Elite. A 51 anni il corridore di San Bonifacio ha deciso di chiudere con la strada, ma resterà nell’ambiente perché la voglia di competere non viene meno con gli anni che passano.
Per ripercorrere tutta la sua storia abbiamo scelto di focalizzarci su alcuni momenti, una sorta di bivi attraverso i quali si è sviluppata la sua carriera. Ogni gara è come il capitolo di un romanzo, raccontato in prima persona e che attende ancora di conoscere la parola fine…
Gli anni da dilettante
«Già da junior mi ero fatto conoscere e avevo anche vinto un oro mondiale di categoria, nella 100 Chilometri a squadre a Mosca. Passato di categoria mi accorsi subito di quanto le cose fossero cambiate, si faceva sul serio, la concorrenza era spietata. Ebbi molte cadute e vinsi una sola gara, ma non mi persi d’animo. Nel 1991 invece la situazione cambiò drasticamente: oltre 10 gare vinte, successo al Giro delle Regioni, oro ai Giochi del Mediterraneo, argento iridato su strada.
«Quella era una generazione straordinaria, con Bartoli, Pantani, Belli, ma io sbocciai prima di tutti. Nel 1992 tutti parlavano di me come del favorito per i Giochi Olimpici, ma il percorso di Barcellona non era adatto alle mie caratteristiche, anche se avevamo lavorato con Zenoni per tutto l’anno pensando a quell’evento andando anche in altura. Il tracciato non era selettivo, quando Casartelli partì con altri due corridori, rimasi lì in copertura e a conti fatti fu la scelta giusta. La vittoria di Fabio la sentii un po’ anche mia».
Le prime classiche
«Passato professionista subito dopo, ci volle tempo per emergere. Nel 1997 ero passato alla Française des Jeux, che intendeva puntare su di me per il Tour. L’anno prima ero stato 6° al Giro e 7° alla Vuelta, mi avevano preso pensando che fossi un corridore da grandi giri. Invece quell’estate non andavo proprio, finivo sempre nel gruppetto dei velocisti nelle tappe di montagna. Solo che col passare dei giorni le cose cominciarono a ingranare e uscii dal Tour con una gran gamba. A San Sebastian volavo e vinsi la corsa in volata, sette giorni dopo mi ripetei al GP di Svizzera a Zurigo beffando Ullrich che veniva dalla maglia gialla al Tour. Quelle vittorie mi sbloccarono e trasformarono: non ero più un corridore per gare a tappe, ma un cacciatore di classiche».
Una settimana da Dio…
«Mi parlano ancora spesso di quel che avvenne nel 2004, di come feci a vincere tre grandi classiche in una settimana. Io dico che fu la mia “settimana santa”. Spesso avevo sfiorato la vittoria alla Liegi, finendo 2° nel 2001 e 3° l’anno prima. Quella settimana avevo una forma mai vista, ma venivo da un periodo abbastanza scialbo e quindi avevo anche fame di vittorie. Iniziai con l’Amstel battendo Boogerd nello sprint a due, poi alla Freccia che correvo pensando alla Liegi feci la differenza sul Muro di Huy con Di Luca a 3”. Potevo dirmi appagato, sicuramente partii per Liegi con la mente sgombra, il mio l’avevo fatto. Così le cose ti vengono ancora più facili, rischi di più senza aver nulla da perdere. Finì che battei ancora Boogerd, per lui non fu certo una settimana felice…».
La Freccia del 2007
«La Freccia stava diventando la “mia” gara. Col passare degli anni avevo imparato a memoria ogni passaggio di quel muro decisivo, sapevo dove scattare, perché in quel frangente è fondamentale non sbagliare. Dicono che sia una gara per scalatori ma non è proprio così, è per gente esplosiva, serve tanta potenza per domare quelle pendenze. Devi prendere la salita nella posizione giusta, non partire troppo presto, affrontare le curve nella maniera corretta. Se hai la forma giusta te la puoi giocare. Io quel giorno non sbagliai nulla, dietro finì Valverde a 6” e mi fa strano che 15 anni dopo chiudiamo insieme…».
Il dolore di Pechino 2008
«Sono passati tanti anni e la sofferenza è un po’ smussata, ma di quella vicenda mi resta tanto dentro: la grande gioia per la gara e quell’argento a un soffio dallo spagnolo Sanchez. La sospensione arrivata sei mesi dopo, le spese per i legali che hanno prosciugato i miei conti. Persi due anni e volevo rientrare da vincente, ma mi accorsi che nell’ambiente molti giravano la testa, non volevano neanche ascoltare le mie ragioni e ciò non è cambiato neanche quando sono stato assolto. Potrei riavere quella medaglia, ma dovrei fare ricorso al Tas in Svizzera e ci vogliono troppi soldi…».
Vittoria a 44 anni
«La Coppa Agostoni del 2015 ha un sapore particolare: a 44 anni ho dimostrato che avevo ancora tanto da dare. Fu una vittoria bellissima perché ottenuta di forza, in fuga con Nibali e Scarponi con Michele che era quello che lavorava di più e poi cedette. Mi ritrovai a giocarmi la vittoria con Vincenzo Nibali che veniva dal trionfo del Tour, ma il gruppo stava tornando sotto, infatti guardando la foto sembra che vinco uno sprint di gruppo, ma non era così…».
Le ultime stagioni
«Ne ho viste di tutti i colori: chi mi tacciava di ridicolo perché stavo ancora in mezzo a corridori con meno della metà dei miei anni, chi invece si avvicinava incuriosito, mi chiedeva perché. Tanti ragazzi mi hanno chiesto consigli, mi hanno detto che avevano visto i video delle mie vittorie. Tanti bambini e i loro genitori mi hanno avvicinato, quasi spronati dal mio esempio. Anche sui social dove come per tutti ho avuto messaggi buoni e cattivi.
«E ora? Continuerò innanzitutto a collaborare con la Dynatek, società della quale faccio parte per lo sviluppo delle loro bici, ci tengo a far crescere l’azienda e nel contempo voglio scoprire sempre di più questo nuovo mondo del gravel. Mi entusiasma la possibilità di esplorare posti diversi pedalando. Magari qualche gara la faccio ancora, con queste nuove bici, così mi tengo in forma…».