Bisolti “inviato speciale” al Tour du Rwanda racconta…

13.05.2021
9 min
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C’era un solo italiano al via del Tour du Rwanda, Alessandro Bisolti. Una dozzina di giorni, viaggio di andata e ritorno incluso, nel piccolo Paese nell’Africa centrale. Una corsa diversa, in una Nazione “ciclisticamente nuova”. Una trasferta esotica e ricca di significati.

Il ciclismo si apre a nuove realtà e va in uno Stato e da un popolo che escono da una delle più atroci guerre civili degli ultimi anni. Un genocidio tremendo, quello del 1994, del quale è impossibile definire il numero dei morti (forse un milione). Dovette intervenire l’Onu per ristabilire la situazione. Certe cicatrici restano e quando si riparte, anche con lo sport è sempre un momento importante. E per questo Bisolti era il nostro “inviato”.

All’avventura

«Prima di partire mi sono anche documentato – racconta il corridore dell’Androni Giocattoli Sidermec – Ammetto di essere stato un po’ titubante. Correre in Africa può sembrare un’avventura, soprattutto durante una pandemia. Invece già dall’atterraggio all’hotel si è rivelato tutto subito al top. Ci hanno fornito il numero del governo ruandese, ci hanno fatto il tampone…».

Bisolti è da poco rientrato a casa sua, tra le Valli Giudicarie, sulle sponde del Lago d’Idro e il tono del racconto è squillante e vivo. Sono stati giorni importanti, costruttivi e anche ricchi di sorprese.

«Se riesco a mantenere la sveglia del Rwanda uscirò sempre presto! Alle 5,30 si era già tutti svegli perché le tappe partivano alle 9 e in un paio di occasioni ci sono stati da fare dei trasferimenti visto che siamo rimasti sempre nello stesso hotel».

Tornanti questi sconosciuti

Ma non va dimenticato anche l’aspetto agonistico del viaggio. Bisolti parla di tappe non lunghe ma molto dure e praticamente in altura, visto che la capitale, Kigali, sorge a circa 1.500 metri di quota ed era uno dei punti più bassi.

«Una cosa che mi ha colpito dei percorsi – dice Bisolti – è che non hanno “inventato” i tornanti. Mamma mia che muri. Si andava su dritti con strappi anche al 20%. Salivi di 200-300 metri in un chilometro e mezzo. 

«E poi la gente a bordo strada: che bello! Impazziva letteralmente per la corsa. Purtroppo a causa del Covid non siamo riusciti a godercela in pieno perché le restrizioni erano severe. Avevamo sempre la polizia vicino con i manganelli alla cintura. Però il calore si avvertiva lo stesso. Pensate che una volta dovevo fare pipì e in 140 chilometri ho fatto fatica a trovare un punto dove non ci fosse nessuno per fermarmi. Certe scene di pubblico a bordo strada le ho viste solo quando il Giro partì dall’Olanda. Un entusiasmo che da noi si fa fatica trovare. I bambini ti rincorrevano in salita. E anche in allenamento ogni volta ci salutavano.

«Un giorno, dopo l’arrivo ho regalato un paio di borracce e sembrava chissà cosa gli avessi dato. Mi è dispiaciuto non avergliele potute lanciare con la nuova regola Uci. Un peccato per quei bambini e per me».

Alessandro Bisolti tra i bambini: è “la sua foto” di questa trasferta
Alessandro Bisolti tra i bambini: è “la sua foto” di questa trasferta

La “foto” del Rwanda 

«La mia foto di questa trasferta? I bambini. Un giorno volevo farmi un selfie con loro. Per fare un bello scatto li ho chiamati, sotto l’occhio di una poliziotta. Ne sono arrivati, due, quattro, cinque… in un attimo saranno stati 30. A quel punto mi sono sbrigato perché altrimenti davano la colpa a me di eventuali contagi. E’ la scena che più mi è rimasta in mente».

Bisolti avrebbe voluto avere un po’ più di tempo per godersi il Rwanda, conoscere la gente e i luoghi. Ma le norme sulla pandemia erano severe anche per i corridori e quel poco che ha visto lo ha fatto dalla sella.

Bici tuttofare

«Ho imparato – continua il corridore di Savio – che puoi trasportare ogni cosa con la testa. Vedevi queste donne che mettevano sul capo, banane, ceste, fusti di latte e camminavano con un equilibrio pazzesco. Entravi nei paesi ed era pieno di gente. Tutti che si muovevano a piedi o in bici, sulle quali caricavano di tutto. Nei trasferimenti alle 6 del mattino, vedevamo che erano già tutti super attivi.

«Le strade erano pulite. Davvero un popolo ordinato, dignitoso. Poi sì, c’erano anche delle baracche come succede in queste Nazioni. Il ricco è ricco per davvero e il povero è super povero. E così si passava dai grattacieli moderni, dai quartieri più lussuosi appunto, alle baraccopoli. Mi auguro che tra qualche anno tutti possano stare meglio. 

«Io avevo già corso in Gabon qualche anno fa e la situazione era diversa. Sporcizia per strada, alloggi meno confortevoli, problemi per mangiare, in Rwanda niente di tutto ciò. E poi foreste, cascate… Se dovessi tornare vorrei portare anche la mia compagna, Sara, per farle vedere tutto ciò. Il clima? Sara mi ha detto: non ti sei abbronzato molto! E ci credo, era abbastanza fresco. Un po’ perché si era in alto e un po’ perché uno scroscione lo abbiamo preso o schivato tutti i giorni. Tante volte ci è capitato di passare sulla strada fumante con il sole che faceva evaporare l’acqua appena caduta».

Avamposto francese

Il Rwanda era territorio belga ai tempi del colonialismo, adesso invece c’è una forte influenza francese. Fu proprio la Francia a farsi promotrice dell’intervento Onu del 1994 ed è stata Aso che ha organizzato il Tour du Rwanda. Anche il presidente Uci, David Lappartient si è fatto vedere.

«E’ venuto anche lui. Vogliono organizzare un mondiale in Africa, in Marocco (si parla del 2025 e in ballo c’è il Rwanda stesso, ndr). Di giovani che vanno in bici attrezzati ne avrò visti giusto un paio, però magari anche grazie a queste corse può nascere un movimento che fra qualche decennio può decollare».

Il livello della corsa era buono e infatti in gara c’erano una WorldTour, la Israel Start-Up Nation, e diverse professional, tra cui le francesi Total Direct Energie e la B&B, oltre all’Androni chiaramente.

«Si andava forte – commenta Bisolti – c’erano dei corridori buoni. Noi siamo arrivati al ridosso del via. Alcune squadre invece erano lì già da un po’ e ne hanno approfittato per fare altura. Si erano adattati meglio. Altura più gara: un Rolland della situazione si prepara per il Tour de France.

«Tappe brevi magari ma con 2.500 metri di dislivello. Nella sesta tappa sono andato in fuga ma nel finale sono andato in crisi di fame. Ero un po’ vuoto per qualche problemino intestinale, altrimenti sarei arrivato con Rolland e Vuillermoz, non male!».

Tattiche naif

Bisolti racconta con lo stesso entusiasmo con cui è stato accolto dalla gente ruandese. E tra i suoi ricordi si parla anche della tattica.

«C’erano i giovani di alcune nazionali come Algeria, Eritrea, Kenya… e il modo di correre era un po’ diverso, più confusionario. Per dire: li ho visti scattare mentre si andava a 60 all’ora in un falsopiano in discesa. O partire da soli quando la fuga aveva ormai 10′.

«Ma il meglio è stato all’ultima tappa. Rompo la bici praticamente al chilometro zero. Me ne danno una che non era la mia e sulla quale proprio non riuscivo a pedalare. Così mi dico: vabbè faccio gruppetto. Mi metto dietro tranquillo, quando vedo alcuni corridori che su uno di quegli strappi dritti prendono e scattano. Ma come – mi dico – partono nel gruppetto? Quindi restavo in fondo da solo. In cima erano stremati e li riprendevo. Si mettevano a ruota. Arrivava un altro strappo e giù che riscattavano. All’inizio mi ero anche innervosito, perché comunque non si fa così, poi l’ho presa a ridere. Alla fine ne avevo 20-30 a ruota».