C’è una storia che risale ai primi anni 2000, giusto vent’anni fa, che vista oggi fa quasi sorridere e pensare ad un ciclismo che non esiste più. E’ quella della Index-Alexia Alluminio, squadra bergamasca con cui Paolo Savoldelli, bergamasco doc, vinse il suo primo Giro d’Italia, nel 2002 (in apertura sul podio finale con Tyler Hamilton e Pietro Caucchioli).
Arriva Pedruzzi
A far nascere questa realtà – costruita con un budget estremamente ridotto in un’epoca dove in Italia regnavano “dream team” come Mapei, Saeco, Fassa Bortolo e Lampre Daikin – fu Pier Carlo Pedruzzi, che dirigeva un’agenzia di comunicazione di Bergamo. Riuscì a convincere dopo un’estenuante trattativa due imprenditori a investire: Gabriele Caliandro con la Index (azienda che stava galoppando nel mondo dei servizi informatici) e la famiglia Agnelli impegnata nella produzione di metalli con il ramo d’azienda Alexia. Attorno, un gruppo di altri sponsor, quasi tutti bergamaschi.
Si chiamerà Index
Caliandro, pugliese d’origine ma bergamasco d’adozione, di investire non ne aveva nessuna voglia. Gli Agnelli di ciclismo erano appassionati e nel tessuto sociale ed economico bergamasco erano inseriti. Eppure, per uno strano gioco del destino, fu proprio Caliandro che riuscì a mettere il nome della sua Index come main sponsor.
«Si crearono situazioni favorevoli – racconta Caliandro – per le quali mi ritrovai in quella situazione. Non capivo niente di ciclismo e anche nei primi mesi di corse seguii la cosa con distacco».
Il primo tifoso
Poi, però, arrivò il Giro e le cose iniziarono a mettersi bene per l’uomo di punta, Paolo Savoldelli.
«Mi accorsi che questa sponsorizzazione poteva avere un ruolo centrale per l’azienda – spiega Caliandro – ma soprattutto mi accorsi che il ciclismo mi conquistava. Iniziai a seguirlo con maggiore interesse, feci di tutto per capirne di più e mi resi conto che avevo iniziato a fare il tifo. Incrementammo la pubblicità della squadra e coinvolgemmo emotivamente tutti i dipendenti».
Il ruolo di Fidanza
Fu un Giro ad eliminazione. I big come Gilberto Simoni, Stefano Garzelli, Francesco Casagrande vennero squalificati, chi per storie di doping e chi per motivi disciplinari. Paolo Savoldelli, già secondo al Giro ’99, fu bravo a restare nelle primissime posizioni.
«La squadra – racconta il Falco – era per il nostro velocista, Ivan Quaranta che in salita faceva fatica. Io ero solo, ma la mia forza fu quella di avere in Giovanni Fidanza (bergamasco, ndr) un direttore sportivo che mi ha sempre aiutato a preparare bene la corsa e a darmi fiducia».
La visita del patron
«Vedevo che scalavamo la classifica di giorno in giorno – incalza Caliandro – e ad un certo punto arrivammo al momento decisivo. Mancavano poche tappe e mi dissero che la squadra aveva bisogno di vedermi, che in quell’ambiente si faceva così, che se li avessi incontrati si sarebbero caricati».
Emerse tutta la sua capacità di imprenditore, visionario per i suoi tempi: «Mi dichiarai subito – spiega Caliandro – dicendo ai corridori che di ciclismo non ne capivo nulla. Così li stimolai a raccontarmi le loro imprese e a farmi spiegare il ciclismo. Mi comportai come con i miei clienti, riuscii ad empatizzare con loro e si creò un bel clima».
Impresa a Folgaria
Savoldelli prese la maglia sfruttando la cotta di Cadel Evans (in rosa) sul passo Coe nella tappa di Folgaria. Staccò l’altro diretto avversario, Tyler Hamilton, e così si affacciò a Milano con la vittoria in tasca.
«La mia fortuna – spiega Savoldelli – fu quella di prendere la maglia a poche tappe dal termine. Dopo la tappa di Folgaria c’era solo un trasferimento verso Brescia, la crono e la passerella di Milano. Dovevo solo guardarmi da Hamilton che nella prima crono mi aveva rifilato quasi due minuti, ma andò bene perché arrivai addirittura davanti. Se nel ciclismo di oggi potrebbe ricapitare? Se si verifica una condizione come la mia, ovvero di prendere la maglia a poche tappe dal termine, forse sì…».
Un anno e stop
Savoldelli arrivò a Milano in trionfo. «Capii solo quel giorno – ricorda Caliandro – che c’erano imprenditori che avevano speso una vita ad investire per vincere il Giro e non ci erano riusciti. Io al primo anno, senza nemmeno volerlo, ce la feci. Decisi però durante quel Giro che sarebbe stata la mia prima e unica esperienza. Vivere tutte quelle storie di doping fu angosciante, pensare che l’immagine della mia azienda era di fatto legata all’onestà dei corridori non mi faceva dormire la notte».