Treni che viaggiano in perfetto orario. No, non sono quelli delle FS (purtroppo) ma quelli che scortano i velocisti. Eppure anche questi treni, se non hanno un buon macchinista non è detto che arrivino puntuali. Possono deragliare, rallentare, perdere vagoni… Gian Matteo Fagnini invece era un macchinista eccellente. A tal punto che è passato da Cipollini a Zabel.
Fagnini era l’ultimo uomo del “treno rosso” della Saeco, prima, e di quello zebrato della Domina Vacanze, poi. Con lui abbiamo rivissuto quei momenti e fatto anche un confronto con i treni e gli apripista attuali.
Fiducia totale
«I meccanismi erano collaudatissimi – racconta Fagnini – e credo che li abbiano visti tutti in Tv. Andavamo tutti forte e tutti cercavamo di essere in forma allo stesso momento. All’inizio entravano in scena Fornaciari, il povero Galletti, Calcaterra, poi a 5-6 chilometri dall’arrivo ci portavamo davanti noi: Scirea, Cipollini ed io. Era questo il nostro segreto, non entravamo in azione troppo presto. E quando dico avanti intendo nelle prime 10 posizioni.
«Al Tour del ’99, quando Mario vinse quattro tappe, eravamo solo noi tre per le volate e lì addirittura entravamo in azione ai meno due, ma quando lo facevamo la velocità era così alta che non ce n’era per nessuno. Tutti e tre eravamo nel picco di forma. Alla mattina neanche ci parlavamo più. Salutini non ci diceva nulla. Ridevamo e scherzavamo fino a 50 chilometri dall’arrivo. In più non avevamo la radiolina, o almeno non tutti. Cipollini non la voleva. Bastava una voce e io sapevo quel che dovevo fare».
Okay, il ruolo dell’apripista è molto delicato, ma di preciso cosa deve fare? Come fa a guidare con un occhio avanti e uno dietro?
«Alla fine io ero un velocista vero e proprio – spiega Fagnini – solo che la mia corsa finiva 200 metri prima rispetto a quella degli altri e infatti anche io ero molto protetto dai compagni. Cosa facevo: non pensavo a Mario. Era lui che doveva seguire me e fidarsi ciecamente. Se io decidevo di andare a destra e lui voleva andare a sinistra, mi veniva dietro comunque. Sapeva che si poteva fidare. Quando davanti a me restava solo Scirea allora magari dovevo dare un’occhio dietro».
Guarnieri-Demare: gli eredi
Oggi molto è cambiato quando si parla di volate. Non tutti hanno un treno ben definito e i percorsi sempre più duri rendono l’organizzazione delle squadre più complicata, anche perché il velocista è spesso appeso ad un filo: reggerà l’ultima salita?
«Oggi il treno della Groupama-FDJ si avvicina a quel che facevamo noi, se non altro perché in quel team sono tutti per Demare e non hanno l’uomo di classifica. Almeno così è stato all’ultimo Giro. E poi anche loro entrano in azione tardi per preparare la volata. Hanno un uomo che negli ultimi 15-20 chilometri tiene davanti il velocista come noi facevamo con Cipollini. Petito o Calcaterra alzavano la mano e tutti davanti. Di solito avveniva ai meno 12. Ma questo può essere dispendioso.
«Una volta, sempre in quel Tour del ’99, c’erano anche i corridori della Telekom. I due treni si erano uniti. Ad un certo punto Bolts si sposta e dà il cambio a Wesemann. Lui tira fortissimo. Ai 700 metri tocca a Scirea che però perde un metro, due… quattro. Così entro subito in gioco io. Tirai a 65 all’ora. Fu una decisione presa sul momento. Ci fu del panico!
«Oggi da quel che vedo alla Tv chi tira le volate spesso si piazza anche. Ma perché, mi chiedo: si risparmiano? Non danno tutto? Io ai 200 metri ero in testa, ma quando mi spostavo dovevano schivarmi da dietro. Mi piazzavo centesimo. E quando mi rialzavo avevo 200 battiti. Ero finito».
Percorsi più duri?
Oggi i percorsi tendono ad essere più difficili per i velocisti, ma Fagnini è d’accordo solo in parte su questa tesi.
«A miei tempi si parlava tanto delle lunghe tappe della pianura francese, che in realtà era vallonata. Sì, forse oggi ci sono tappe intermedie un po’ più dure, ma alla fine i percorsi sono quelli: Alpi, Pirenei, Appennini… Piuttosto vedo che ci sono finali più pericolosi, con molte curve, strade strette e si cade di più. Non so perché, forse manca un vero treno. Ce ne sono 3-4 ogni volta. Quello nostro faceva gioco anche agli altri alla fine e infatti la vera bagarre era per prendere la ruota di Cipollini, perché chi ci riusciva finiva secondo, se gli andava male, o vinceva».
Fagnini racconta con grande precisione e passione. E’ incredibile come un corridore che abbia corso per tanti anni ricordi così nel dettaglio determinate azioni. Segno che Fagnini era sul pezzo. E infatti quando gli chiediamo se avessero pensato a mettere un uomo dietro a Mario lui risponde: «Io sì, ci avevo pensato. Ma chi? Non era facile trovare corridori per quelle situazioni. Ci sarebbe voluto un pistard, ma faglieli fare 230 chilometri di tappa ed essere ancora brillante. Se ci mettevi Gotti gli davano una spallata e schizzava via!».
Cipollini o Zabel?
Dopo aver lasciato il treno di Cipollini, Fagnini è approdato a quello della Telekom, per fare l’ultimo uomo di un certo Erik Zabel.
«Due grandi. Cipollini era più forte e più potente. Zabel era più completo. Mario voleva il treno, Zabel non aveva richieste, spesso faceva da solo, si divincolava meglio (merito anche della pista, ndr). Però anche Mario una volta fece da solo. Avvenne nella tappa di Matera nel Giro 1998. Disse che non voleva fare lo sprint e così noi ci staccammo nel finale. Lui restò davanti e vinse. Nessuno dei due però mi ha mai rimproverato o detto qualcosa.
«In chi mi rivedo oggi? Sono un po’ fuori dal ciclismo a dire il vero, sono nel settore immobiliare, però da quel che vedo alla tv dico Guarnieri. Si muove un po’ come me, anche se lui per lanciare lo sprint resta seduto e va in progressione, la mia invece era una volata vera e propria. Mi sedevo quando mi spostavo».