Certe volte è meglio perdere per far perdere, che provare a vincere. E’ quello che ha pensato un imbufalito Pinot a Crans Montana, indispettito dall’atteggiamento di Cepeda e alla fine Rubio ha messo tutti d’accordo. Chi ha buona memoria ha assistito a un copione già visto: Val Thorens, Tour de France 1994. Piotr Ugrumov è in fuga con Nelson “Cacaito” Rodriguez, pupillo di Gianni Savio alla ZG Mobili. Il colombiano non tira un metro, Ugrumov s’indispettisce e s’innervosisce, prova a levarselo di dosso, ma il rivale gli resta attaccato e non dà un cambio. Poi, alla fine, uno scattino e la tappa è sua.
Sono passati tanti anni e il lettone, ormai da tempo romagnolo d’adozione, quel fatto lo rivive con distacco, anche se gli è chiaro nella testa ogni metro della scalata. Oggi Ugrumov continua a lavorare con la nazionale messicana, è a San Marino con 8 ragazzi che vivono e si allenano sotto le sue direttive, per poi partire in giro per l’Europa per continuare a imparare: «Ma ora con noi c’è anche un ragazzo locale. Crescono e imparano, pian piano».
Hai visto quel che è successo a Crans Montana?
A dir la verità no, non ho avuto tempo per vedere questo Giro d’Italia, nel pomeriggio sono sempre impegnato, ma so bene quanto è successo e immaginavo che a qualcuno potesse tornare in mente quella tappa.
I corridori sudamericani sono tutti così?
No, non creiamo stereotipi. E’ che molti cercano di sfruttare la situazione e devi metterlo in conto. Ricordo che Domenico Cavallo, il diesse che era nell’ammiraglia di Rodriguez e oggi purtroppo è scomparso, non faceva che urlargli: «Stai a ruota che ti porta al traguardo…». Io cercavo di mollarlo, ma rimaneva sempre attaccato.
Te la sei presa?
Lì per lì sì, ma non sono tipo da mettermi a fare discussioni. Ho reagito come dovevo reagire, infatti il giorno dopo me ne sono andato da solo e ho vinto. D’altro canto non ero per nulla veloce, se volevo vincere dovevo arrivare da solo. Ma tornando a quanto detto prima, non tutti i colombiani sono così. Ricordo ad esempio Lucho Herrera, un grande che ho affrontato sia da dilettante che da pro’. Lui non stava a ruota, attaccava e vinceva, uno scalatore con i fiocchi.
Perché però molti seguono quella strada?
Io dico che fa parte della vita, è quello che essa ti insegna. Sanno bene che la montagna non ti regala niente, ci vivono. Imparano ad andare in bici lì. Faticano. Sanno che la stanchezza ti colpisce all’improvviso e quindi devi cercare in tutti i modi di risparmiare energie. E’ un discorso complesso: non tutti riescono ad andare per 5-6 minuti fuori soglia.
Tu lavori con i messicani: sono diversi?
E’ una cultura diversa che deriva dalla situazione geografica: in Messico c’è sì l’altitudine, ma ci sono molte meno montagne e quindi è difficile trovare grandi scalatori, io ricordo solo Alcala. Sono forti sul passo, hanno un’evoluzione ciclistica più lineare, anche se poi quando arrivano in Europa si trovano in un mondo diverso dal loro. C’è un aspetto dei colombiani che ripensandoci mi colpisce…
Quale?
Tempo fa sono stato al Giro di Colombia e la cosa che mi ha lasciato stupefatto è che gareggiavano anche ragazzini di 16 anni, insieme ai pro’. Lì non ci sono grandi numeri, ma non fanno distinzione fra categorie e sin da giovanissimi si trovano a competere con i più grandi. Poi non hanno i limiti di rapporto che c’erano in Italia fino allo scorso anno. Perdevano magari in agilità, ma ne guadagnavano in forza.
Tornando a quanto successo all’ultimo Giro d’Italia, che ne pensi del comportamento di Pinot?
Mi spiace, ma ha sbagliato. Non è un corridore qualsiasi, è un campione con un grande curriculum, correre così non gli fa onore. Poteva cambiare tattica, poteva giocare di furbizia proprio come fanno i colombiani. Era superiore e lo dice la storia stessa degli ultimi anni. Io non avrei fatto così, Pinot poteva agire diversamente.