Nella prima intervista dopo la caduta al Polonia, Filippo Baroncini ha raccontato di aver svolto la riabilitazione presso il Fisiology Center di Forlì, il centro di Fabrizio Borra. Attimo di silenzio, mente locale. Il rieducatore romagnolo, conosciuto trent’anni fa quando rimise in bici Marco Pantani e poi coinvolto in decine di approfondimenti, è scomparso prematuramente nello scorso mese di maggio e in tutta onestà non sapevamo chi mandasse avanti il centro.
E’ stato Fred Morini a spiegarci che al timone ci sono i suoi due figli. Luca, classe 1988, preparatore. Daniele, classe 1992, fisioterapista. Ci è perciò venuta voglia di conoscerli e farci raccontare quale sia l’eredità professionale e umana di Fabrizio, con il piacere di sapere che la sua capacità non è andata perduta, assieme all’arte di resettare corpi feriti e rimettere in sesto anche la mente.


Luca e Daniele, i fratelli Borra
Metterli insieme è stata un’impresa, hanno calendari fittissimi. E così, aspettando Daniele, ci presentiamo e raccontiamo a Luca di aver conosciuto suo padre nel vecchio centro, ben prima che nascesse quello attuale.
«Ai tempi di Pantani – racconta lui – noi eravamo ancora piccoli. Io un po’ l’ho vissuto e in parte mi rivedo in mio figlio quando viene qui. Ero un bambino, avevo otto anni. Vedevo Pantani, ci facevo due risate, due scherzate. Papà ha aperto qua nel 2007 e qui abbiamo cominciato anche noi qualche anno dopo. Io mi sono laureato in Scienze Motorie e Daniele in Fisioterapia e adesso siamo qua e andiamo avanti».
Nel frattempo è arrivato Daniele. Ci conferma che Baroncini ha subito un brutto trauma, ma che la ripresa è stata efficace e anche rapida, come accade agli atleti molto motivati. E poi si comincia, mettendo insieme i ricordi con il presente.


Quando avete preso coscienza che oltre ad essere vostro padre, Fabrizio Borra era così stimato nel suo ambiente?
LUCA: «Quando ho cominciato a girare con lui, comunque dopo Pantani. Piano piano ho capito quanto avesse dato e stesse ancora dando, sia a livello rieducativo sia anche a livello sportivo. Diciamo che rispetto a Daniele, vengo più dal mondo dello sport. Ho fatto Scienze Motorie perché mi piaceva, senza alcun obbligo. Poi ho iniziato ad appassionarmi di basket e di motori, dato che era tutto in casa. E ora il mio ruolo di allenatore serve per la fase della riabilitazione in cui l’atleta inizia a curare il gesto, dopo aver recuperato dall’infortunio».
DANIELE: «Il nostro lavoro è sempre focalizzato sull’aspetto riabilitativo. Una volta ci si fermava alla guarigione e poi toccava agli allenatori. Invece la forza di papà è stato dimostrare quanto sia importante la fase ibrida tra l’aspetto della fisioterapia e della normalizzazione e la ripresa del gesto sportivo. Quindi l’obiettivo è collegare i due mondi in maniera collaborativa, in modo che il lavoro di Luca come preparatore possa iniziare precocemente, anziché limitarsi alla fisioterapia».


Fabrizio ha sempre avuto grande pragmatismo. In una delle ultime interviste sull’incidente di Bernal, aveva anticipato con grande precisione l’iter della ripresa.
DANIELE: «E’ quello che ci ha insegnato e che ha portato avanti, soprattutto il concetto di guardare la biologia e andare dietro al tempo biologico senza costruire troppo. Seguire la risposta del corpo, senza anticipare cose quando non è intelligente farlo. E senza neanche andare a complicare il quadro quando tutto fila liscio».
Il fatto di lavorare con atleti di alto livello vi porta un’esperienza utile nel lavorare con i pazienti di tutti i giorni?
LUCA: «Sì, secondo me aiuta. L’atleta ha risposte veloci perché fa solo quello. L’idraulico invece lavora tutto il giorno in piedi e arriva da noi più affaticato. L’approccio che abbiamo con l’atleta e con la vecchietta è lo stesso, cambiano ovviamente le intensità».
DANIELE: «E’ normale che non puoi attuare le stesse intensità e gli stessi percorsi. I fattori da considerare sono l’aspetto bio-socio-ambientale e l’aspetto psicologico di un atleta, che comunque è molto delicato quando subisce un infortunio. Non esclusivamente l’aspetto dell’esercizio, ma la globalità della riabilitazione e tutte le sfere che essa coinvolge».


Che papà è stato Fabrizio Borra?
LUCA: «La cosa più bella bella è stato condividere oltre alla vita, anche il lavoro. Ci vedevamo quasi più qui che a casa. Lui era sempre in giro, per cui potresti dire che sia stato un padre assente, invece no. Non c’era, ma era presente per la qualità del tempo. Ritrovarsi senza è molto duro, al di là del lavoro, anche per la vita. Io ho due figli, quindi era appena diventato nonno e da quel punto di vista ha lasciato un bel vuoto. Però è sempre stato presente in tutto».
Era sempre presente anche per i suoi atleti.
LUCA: «Quelli che hanno lavorato con lui ormai sono arrivati a fine carriera, però i rapporti continuano. Bennati e Basso, anche Viviani. Sanno che noi ci siamo e ci sono stati vicino anche nei momenti in cui il papà è stato male. I suoi amici non hanno mai smesso di venire, per farsi trattare e sapere come stava. Tamberi veniva una volta al mese, anche se non ne aveva bisogno. Elia Viviani e Dovizioso la stessa cosa. Quando si è ammalato, hanno continuato a venire. E Jovanotti ugualmente l’ha voluto nel suo tour».
DANIELE: «Anche quelli che non erano più atleti. Uno degli ultimi è stato Paolo Bettini, venuto per stare un po’ insieme. Papà aveva la capacità di creare un bel rapporto, ma stando sempre un passo dietro. Lo hai mai sentito dire: io sono il fisioterapista di Marco Pantani oppure il fisioterapista di Alonso? Ha sempre lavorato senza farsi vedere. Se erano loro a parlarne, allora bene. Ma lui ha sempre messo l’atleta davanti e questo è stato probabilmente il motivo per cui ha avuto un bellissimo rapporto con tutti. Ma tornando alla domanda di prima…».


Quale?
DANIELE: «Quando ho capito quanto ha fatto il papà in questo mondo. Sin da subito percepivo certe cose, perché venivano atleti di grande livello direttamente da lui e si affidavano totalmente. Però poteva anche essere una visione distorta, non vedendo altro di quel mondo. Invece ho avuto una conferma incredibile nell’ultimo anno. Soprattutto dopo quello che è successo, davanti alle testimonianze di chi l’ha conosciuto. Anche a livello professionale, tutti quelli con cui ha collaborato lo hanno ricordato senza le classiche frasi di circostanza».
LUCA: «Alonso poteva anche non portarlo più alle gare. Invece quando è stato male e purtroppo stava peggiorando, Fernando lo ha voluto comunque. Gli ha fatto fare due Gran Premi, anche senza fare nulla. E papà ha fatto fatica, ma lo ha accompagnato. Anche dopo, anche adesso continuano a scrivere, per ricordarsi di lui».
Avete parlato di livello professionale, anche se spesso è un ambito di grandi gelosie…
DANIELE: «Quando sono stato all’ultimo International Congress Sport Traumatology che organizza il professor Porcellini, con tutte le eccellenze italiane di ortopedia e fisioterapia, non ce n’è stato uno che non abbia provato emozione nel ricordarlo. Tutta gente che col carattere di mio papà a volte ha anche discusso, eppure ho percepito che abbia lasciato un segno nel mondo del lavoro».


Fabrizio Borra sistemò Pantani facendolo lavorare in acqua e parve un marziano. Quanto si è evoluto il vostro mondo?
LUCA: «Tanto ed è ancora in evoluzione, non ti puoi mai fermare, devi sempre stare al passo. E’ un progresso che ti aiuta, perché se pensi ai tempi di recupero di una volta, magari adesso sono un po’ diminuiti. Una volta ti ingessavano per qualunque cosa ed è chiaro che recuperare era più lungo».
DANIELE: «Non è tanto sui tempi quanto sull’approccio. Dal punto di vista ortopedico è cambiato tantissimo, dal come gestivi certe situazioni negli anni 90 a come le gestisci adesso. Ed è cambiato anche il rispetto del corpo, me lo raccontavano il papà e i ragazzi che lavorano qui e hanno condiviso con lui quel percorso. Una volta c’era la gara per far rientrare l’atleta nel tempo più rapido, poi però non si spiegavano tanti altri problemi che venivano fuori. Adesso c’è l’intelligenza di capire che non c’è bisogno di avere fretta e bisogna fare le cose per bene. Poi, se fatte bene sono anche veloci, meglio ancora».
Non c’è più pressione da parte dei team e degli stessi atleti?
DANIELE: «Se per fare tutto bene ci vogliono due settimane in più, meglio prendersi il tempo necessario che avere fretta, soffermandosi solo sui problemi di oggi. Meglio ragionare a lungo termine, per questo l’approccio è cambiato tanto. Perché l’aspetto di questo ritmo sfrenato della vita si sente molto di più oggi rispetto a 30 anni fa».


A Fabrizio tanti corridori riconoscevano il fatto di essere anche un sottile psicologo…
DANIELE: «Forse è la cosa più importante che ci ha lasciato. Quando l’atleta entra nella dimensione dell’infortunio, l’idea di tornare come prima o anche meglio è il tarlo che gli scava dentro e che è difficile gestire. Ha bisogno di aggrapparsi a certe figure che devono pensare anche e soprattutto a quell’aspetto. Farlo come lo faceva Fabrizio è difficile, perché l’atleta si affidava al 100 per cento. Qualsiasi cosa facesse, anche le meno canoniche, riusciva a ottenere quella fiducia. C’era qualcosa che li legava anche al di fuori dell’aspetto tecnico. Questa forse resta l’eredità più difficile da raccogliere».